Alesia e i suoi compagni di viaggio accolgono sempre con grande piacere il contributo particolare del caro amico Arnaldo Brunale che di cuore ringraziamo
di Arnaldo Brunale
Siamo a gennaio e, anche se splende un bel sole in questi giorni da “primavera” inoltrata, è tempo di parlare del maiale anzi del “rito del maiale”. Infatti, l’allevamento e l’uccisione del maiale (puōrche), più che una tradizione contadina, sono considerati da sempre un vero e proprio rito. Ogni anno, con particolare riferimento alle fredde giornate di questo mese di gennaio, esso coinvolgeva, e tuttora coinvolge, intere famiglie che si suddividevano i compiti da svolgere: dalla uccisione dell’animale alla preparazione dell’acqua bollente per la sua pelatura, dal sezionamento alla salatura delle carni, dalla preparazione degli insaccati alla raccolta del sangue, fino al banchetto serale durante il quale venivano consumate le sue parti molli in segno augurale accompagnate da una gustoso contorno a base di fettine di arance condite con olio e zucchero.
Un’antica abitudine contadina vuole che il maiale debba essere ammazzato nelle prime giornate gelide di gennaio, caratterizzate dalla fase della luna piena ma in fase calante, perché le sue carni devono essere lasciate riposare ed asciugare in un ambiente molto freddo per non guastarsi nel corso dell’anno e per essere più saporite da mangiare. La scelta di uccidere il maiale a gennaio, tuttavia, è legata anche alla maggiore disponibilità di tempo che hanno i contadini in questo periodo caratterizzato dalla neve e dalle ghiacciate notturne che impediscono loro di dedicarsi ai lavori della campagna.
Anticamente, però, non tutti, potevano permettersi di allevare un maiale. La povertà era molto accentuata in quei tempi, per cui chi aveva un maiale era considerato un benestante ed era guardato con invidia da chi non lo possedeva. Le famiglie meno abbienti, tuttavia, riuscivano ugualmente a procurarsi, con grandi sacrifici, il quantitativo di carne suina sufficiente per preparare in casa salsicce, soppressate, capocolli ed acquistare l’immancabile lardo da adoperare in cucina in sostituzione dell’olio. In ogni casa, soprattutto in quelle contadine, non dovevano mancare mai la carne di maiale ed i suoi prodotti oltre, naturalmente, ad una buona provvista di farina, di olio e di vino. I nostri avi dicevano che quando in casa c’era la “grazia ‘è Ddῑe” ovvero questo tipo di abbondanza (grascia), una famiglia poteva affrontare con serenità anche i periodi più neri di carestia dovuti ai rigori invernali.
Del maiale non si buttava nulla. Famoso resta il detto dei contadini “ru puōrche nén zé iētta niente!” (del maiale non si butta niente!): dalle setole, con cui si confezionavano spazzole e pennelli, alle unghie con cui si preparavano bottoni; dalla carne, utilizzata per confezionare squisiti salumi, al lardo utile per cucinare, in sostituzione dell’olio, o ricavarne la sugna nella quale si conservavano le salsiccie. Chi poteva permettersi l’allevamento di un maiale aveva la ricchezza in casa, più della farina e dell’olio, anch’essi considerati dei veri e propri doni di Dio. Ancora oggi, le generazioni più vicine a noi, anche quelle che vivono in città, nel rispetto di questa filosofia di vita squisitamente contadina, continuano ad ammazzare il maiale allevato appositamente presso una famiglia contadina amica o si forniscono di carne suina per meglio affrontare le rigide giornate invernali.
Allevamento del maiale
Il maiale, di pochi mesi, veniva acquistato nelle fiere primaverili con i risparmi messi da parte nell’intero arco dell’anno. Al suo allevamento era preposta soprattutto la donna di casa, in quanto il marito ne era impedito dal lavoro dei campi o delle botteghe. Per farlo crescere bene gli si davano in pasto ricchi beveraggi (bbévérone) composti da ghiande (gliānne), pane raffermo (toccére), patate (patane) e broda di pasta di casa (vróra). La cura del maiale era molto meticolosa, per cui si cercava di farlo crescere ed ingrassare bene tenendolo lontano dagli altri animali e dal sempre presente pericolo di malattie da contagio. Un altro accorgimento, per far ingrassare il maiale, era quello di castrarlo da piccolo. Questo compito era demandato ad una figura pittoresca dei tempi andati (sanapurcella) che, munita di coltelli ben affilati, prestava la sua opera di contrada in contrada, in cambio di pochi spiccioli. Oggi questo lavoro è svolto dai macellai (macéllāre) o dai veterinari (vétrénāre).
Uccisione del maiale
Il giorno antecedente alla sua uccisione, il maiale si lasciava a digiuno per due motivi. Il primo era quello di tenere le sue viscere libere da residui organici, il secondo era un accorgimento che serviva a stimolare in lui l’appetito, per cui era più facile attirarlo sul luogo dove doveva essere ammazzato con la lusinga del pastone.
Una volta catturato, l’animale veniva legato alle zampe e disteso con forza su un tavolaccio lasciandogli la testa penzoloni per facilitare l’uscita del sangue ed una sua morte più rapida. Subito dopo, la persona più esperta in quel tipo di lavoro gli conficcava nella gola un coltellaccio (scànnatūre) fino a raggiungere la giugulare. A volte capitava che il dimenarsi dell’animale impedisse che il colpo inferto fosse subito mortale. Allora si assisteva a scene strazianti durante le quali il maiale si dimenava con tutte le forze lanciando al cielo urla laceranti. Assistere a quello spettacolo non era piacevole, ma la certezza che il risultato finale era l’abbondante carne con cui si sarebbe nutrita tutta la famiglia durante l’anno, faceva sì che quel rito pagano, cruento e penoso, divenisse una vera e propria festa. Oggi quel tipo di macellazione è stato bandito dalla legge, proprio per non far soffrire troppo l’animale, per cui lo si ammazza o con un chiodo sparatogli sulla fronte da una pistola, oppure lo si tramortisce con una forte scarica elettrica prima di scannarlo.
Il sangue (sànghe) era raccolto in un recipiente per essere trattato dalle donne in vario modo. Con una parte di esso si preparava una gustosissima crema (sànghe róce) con cioccolato (ciūcculate), zucchero (zùcchére), mandorle tritate (mènule) o noci, buccia (scòrcia) di arancia grattugiata. Una vera e propria leccornia per grandi e piccini. Un altro quantitativo si faceva bollire in acqua salata ottenendo, così, dei pezzi coagulati (sànghe ‘mbézzate) che, conservati al fresco in appositi contenitori, venivano prelevati di volta in volta per essere cucinati con cipolla (cépolla), olio (òglie) e foglie di alloro (laūre). Gli ultimi grumi del sangue si inserivano in grossi budelli dello stesso animale, insieme alle mandorle, alle noci e ai pinoli tritati (pignuōle), ad un piccolo quantitativo di zucchero, all’uva passita (uva passa), ad un bicchiere di mosto (muste) e ad alcune dosi di caffè (cafè), così da ottenere il gustosissimo sanguinaccio che si offriva come dolce agli ospiti nelle ricorrenze importanti.
Dopo l’uccisione, il maiale veniva lavato con acqua bollente per essere privato delle setole, che erano vendute ai calzolai, che se ne servivano per cucire le tomaie delle scarpe alle suole, o agli artigiani che, nelle botteghe, le lavoravano per farne degli ottimi pennelli usati dai pittori o dai barbieri. Al termine di questa operazione il maiale era appeso a testa in giù ad una robusta croce di legno (gammagliēre) per essere diviso in due parti, procedendo dall’alto verso il basso. Le due metà dell’animale si lasciavano riposare tutta la notte in un ambiente aerato ed asciutto prima di sezionarle e lavorarle nei giorni successivi. Precedentemente al confezionamento degli insaccati, si provvedeva a lavare le sue budella (‘urelle) con acqua calda salata, messe, poi, ad asciugare in un luogo fresco per non farle marcire.
La prima serata si concludeva con un pranzo durante il quale si gustava la fréssora, una pietanza composta dalle parti molli del maiale cucinate con peperoni sott’aceto (cumbosta), mollica di pane, sale, aglio e pomodorini.
Sezionamento del maiale
Quando le carni del maiale erano ben rassodate ed asciugate si provvedeva a depezzarle e a lavorarle. Questo avveniva in un ambiente ben ventilato e freddo per impedire che il caldo eccessivo potesse nuocere alle carni. Il lardo (larde) era tagliato in pannelli, conciato con sale e peperoncino tritato (péparulille) prima di essere messo ad essiccare in ambienti a ciò preposti. Un buon quantitativo del lardo, quello più molle, era sciolto a fuoco lento per ricavarne la sugna (‘nzógna) che, conservata in appositi budelli, serviva in cucina come condimento in sostituzione dell’olio. In essa si conservavano anche le salsicce (saūcicce) e le soppressate (supprésciāte), che si facevano con la carne più magra del maiale sminuzzata a punta di coltello, condita con sale, finocchio selvatico (fénucchiōne), peperoncino o pepe. Quando questi prodotti non si conservavano nella sugna, soprattutto la salsiccia, si facevano pendere su lunghe canne per farli essiccare prima di essere consumati nelle occasioni importanti. Le quattro cosce del maiale (présutte) erano trattate con sale, peperoncino macinato o pepe granulato prima di farle asciugare all’aria di un capiente stanzone. Erano i prosciutti che avrebbero fatto bella mostra di sé quale messaggio, destinato agli occhi della gente, del benessere (grascia) che c’era nella casa. A volte, le necessità esistenziali inducevano una famiglia a privarsi di uno o di tutti i prosciutti vendendoli ai privati o ad una macelleria. Con i soldi ricavati si compravano capi di vestiario oppure una nuova attrezzatura necessaria per il lavoro.
Le zampe del maiale si facevano cuocere con i legumi con cui si preparavano ricche pietanze da consumare nelle rigide giornate invernali, oppure si facevano bollire in acqua appena salata per insaporirle successivamente con olio, limone, prezzemolo e peperoncino ottenendone una gustosa leccornia. Con il fegato del maiale, dopo essere stato sminuzzato e condito con sale, finocchio selvatico, aglio e peperoncino, si confezionavano delle ottime salsicce (saūcicce ‘é fechéte) che, dopo la loro essiccazione, si mettevano sotto sugna in grandi barattoli di vetro. Con piccole porzioni di fegato si preparavano anche gustosissimi involtini che, arrotolati nella rete organica dello stesso animale, conditi con aromi vari e con una foglia di alloro, si arrostivano sulla brace ardente del camino. Le cotenne (cotéche) in esubero si distribuivano fra tutti coloro che avevano partecipato all’uccisione del maiale, mentre altre parti meno nobili dei grassi servivano per preparare il sapone per il bucato.
Una curiosa, quanto divertente usanza era quella dell’aggiudicazione della testa (còccia) del maiale che, però, era osservata solo nelle famiglie più facoltose. Prima dell’uccisione della bestia, tutti coloro che vi partecipavano dovevano fare un pronostico sul suo peso reale. Colui che indovinava o vi si avvicinava di più se l’aggiudicava.
RITI PAGANI
Fredda,
l’ora mattutina,
nell’incerto pallore della bruma,
coglie misteriosi riti pagani
nella fretta di frementi attese.
D’improvviso,
avide ombre nere
accerchiano l’ignara bestia
sdraiata nell’immonda mota.
L’umana furia,
armata di nemico canapo,
trattiene foga d’irascibile ribellione
saettante impotenti urla al cielo.
Industri preparativi,
alla macabra cerimonia,
animano l’aia di ricche speranze,
mentre,
il balenar d’un attimo selvaggio,
si spegne crudele
nel gelido abbraccio del silenzio,
fra voci festanti,
ebbre della rossa resa.
Prof. Arnaldo Brunale