Transizione energetica: fatti, miti e realtà

di Paolo Ruggeri

I temi dell’energia sono da tempo al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica e dei mezzi di informazione, tuttavia non sempre chi li affronta ha le conoscenze di base necessarie per apprezzarne la portata e le implicazioni conseguenti. Questo è particolarmente comune proprio in questo periodo,  quando è quotidiana attualità parlare di transizione energetica e di decarbonizzazione.

Per transizione energetica si intende l’auspicato e progressivo abbandono delle fonti energetiche fossili basate sul carbonio, quali petrolio, gas naturale e carbone, a favore di fonti di energia cosiddetta “verde”, green, cioè rinnovabile e sostenibile, così chiamata per il minor impatto sull’ambiente e sui cambiamenti climatici. Tra queste fonti energetiche si annoverano per esempio  l’energia idroelettrica, l’eolica e la solare. L’Accordo di Parigi del 2015, sottoscritto da più di 180 paesi del mondo in occasione della conferenza delle parti COP21, ha segnato un importante spartiacque nella storia recente fissando a decorrere dal 2020 gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra (riconducibili alle tonnellate di CO2 equivalente emesse dalle fonti energetiche fossili) necessari per contenere l’aumento della temperatura media mondiale al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali, riconoscendo quindi che questo contenimento dell’aumento della temperatura potrebbe ridurre in modo significativo i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici. 

Ancora più recentemente, nel 2019, l’Unione Europea, con il lancio del programma EU Green Deal, ha intrapreso un percorso di investimenti volto all’assunzione da parte dell’Europa di un ruolo di guida mondiale nell’adozione di tecnologie green, prefissando l’obiettivo del raggiungimento della cosiddetta neutralità carbonica, carbon neutrality (ovvero l’equilibrio tra le quantità di gas serra emesse e quelle assorbite in atmosfera) entro il 2050. L’Europa sarebbe così il primo continente a raggiungere la neutralità climatica. I contenuti dell’EU Green Deal sono riflessi nei piani di politica energetica dei singoli Stati Membri. Per l’Italia è stato definito il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), che delinea la strategia energetica del Paese sino al 2030 secondo cinque linee d’intervento, che si sviluppano in maniera integrata: dalla decarbonizzazione all’efficienza e sicurezza energetica, passando attraverso lo sviluppo del mercato interno dell’energia, della ricerca, dell’innovazione e della competitività.

I fatti

In questo scenario si sono inserite in rapida e sconcertante successione la crisi pandemica da COVID-19 ed il conflitto in Ucraina, eventi che stiamo purtroppo ancora vivendo e che hanno messo in evidenza come la transizione energetica, e cioè la sfida della decarbonizzazione dell’energia, debba tenere conto anche di altre due sfide importanti e contingenti

La prima sfida è garantire la disponibilità dell’energia, ovvero la continuità delle forniture energetiche necessarie per sostenere la crescita economica del Paese: questo per l’Italia significa disporre, a parità di intensità energetica (MWh per milione di euro di PIL), di circa 17 TWh per punto percentuale di crescita del PIL. Per sostenere una crescita intorno al 3% si devono perciò ogni anno aggiungere o importare 51TWh, l’equivalente dell’energia prodotta in un anno da una decina di centrali tradizionali a gas di media taglia oppure da circa ben 400 km quadrati di superficie coperta da pannelli fotovoltaici, più o meno la superficie totale di un medio comune italiano come Arezzo o Venezia.

La quota delle importazioni nette rispetto al fabbisogno energetico nazionale si attesta oggi intorno al 75%, un valore già molto alto che pone, come stiamo vedendo recentemente, un tema di vulnerabilità e indipendenza energetica così grave da richiedere risposte immediate relative alla strategia di approvvigionamento e alla diversificazione delle fonti. Se da una parte il progressivo aumento della quota delle rinnovabili (20% dei consumi finali lordi e 37% della produzione di energia elettrica nel 2020) ha alleggerito la quota di importazioni, dall’altra l’Italia dipende dall’estero ancora per il 93% del gas naturale ed il 90% del petrolio e dei prodotti petroliferi. Nel caso del gas naturale, l’importazione avviene per più dell’ 80% attraverso infrastrutture fisse, i gasdotti, che, percorrendo migliaia e migliaia di km, collegano il territorio nazionale ai giacimenti, e solo in piccola parte il fabbisogno di gas è coperto dalla produzione nazionale e dal gas naturale liquefatto (GNL) trasportato via mare sino ai tre terminali di gassificazione oggi disponibili (La Spezia, Livorno, Nord Adriatico).

Con un’incidenza sui consumi energetici complessivi stimata intorno al 20%, le fonti rinnovabili di energia stanno prendendo progressivamente un ruolo di primo piano nel sistema energetico nazionale, confermandosi elemento determinante per lo sviluppo sostenibile del Paese; rimangono però ancora una risorsa non sufficientea garantirne da sola le necessità di approvvigionamento, sia per quantità che per natura (variabilità e stagionalità). 

La fonte idraulica è ancora quella maggiormente utilizzata in Italia (40% della generazione complessiva da rinnovabili) ed è in aumento  in misura molto rilevante anche la fonte solare, mentre la produzione da fonte eolica, geotermica e le bioenergie si attestano ancora su valori quasi trascurabili e sostanzialmente stabili negli ultimi anni. 

La seconda sfida è contenere i costi dell’energia e soprattutto la loro volatilità.

Recentemente il prezzo dell’energia elettrica in Italia è passato dai 40 euro per MWh del febbraio 2020 ai 209 dello stesso mese del 2022, il gas naturale dai 10 agli 80 euro per MWh. Gli usi finali di energia sono ripartiti tra il settore trasporti, per più del 30%, gli usi civili, ovvero famiglie, commercio, servizi e pubblica amministrazione per circa 40%, gli usi industriali e quelli agricolisono poco sotto il 30%.

I maggiori costi dell’energia diventano maggiori costi per la produzione di beni e servizi, impattando  le imprese e comportano bollette energetiche delle famiglie più alte, quindi, in ultima analisi, si traducono in aumento del costo della vita e minor competitività del sistema Paese: si tratta di effetti che, combinati insieme, possono avere conseguenze disastrose sulle economie nazionali.  In particolare, già adesso, le imprese italiane, per lo più piccole e medie imprese (PMI) , risultano penalizzate rispetto alle concorrenti tedesche e francesi, a causa della non concorrenzialità dei prezzi, sia nel settore del gas naturale che in quello dell’elettricità. Allo stesso modo, anche le famiglie italiane pagano un prezzo dell’energia superiore alla media europea. Negli ultimi anni la spesa correlata ai consumi energetici di una famiglia tipo in Italia si è aggirata intorno ai 3.000 euro l’anno, ovvero circa il 10% del reddito familiare medio ISTAT, ed è riconducibile per il 48% all’acquisto di carburanti, per il 34% alla bolletta per il gas e per il 18% alla bolletta elettrica. Nello stesso anno la stessa famiglia tipo ha contribuito in bolletta con 155 euro, ovvero con il 5% della propria spesa energetica complessiva, alla promozione della sostenibilità.

Quindi, se  da una parte il sentimento ambientalista spinge tutta l’opinione pubblica ad auspicare un passaggio veloce a fonti sostenibili, dall’altra è necessario chiedersi fino a quanto il sistema economico nel suo complesso, cioè imprese e famiglie, possa sopportare l’ aumento dei prezzi e i maggiori oneri dovuti alla transizione. Situazione difficile in tempi normali, divenuta estremamente più complessa a causa della pandemia e della crisi Russia-Ucraina. La mancanza di investimenti degli ultimi anni nel settore dell’ ”oil and gas” con il conseguente rallentamento delle esplorazioni, che era apparso una scelta obbligata per fini di sostenibilità, ha invece reso evidente oggi, con i prezzi dell’energia, petrolio e gas alle stelle, che i disagi maggiori sono a carico degli elementi più deboli del sistema, le famiglie a reddito medio-basso e le piccole e piccolissime imprese. Questa dinamica fa addirittura  riflettere sul fatto che forse un po’ di CO2 residuale possa essere ancora accettabile se l’alternativa è quella di veder chiudere le aziende, con perdita di posti di lavoro e forte disagio sociale. 

I miti

E’ necessario a questo punto riconoscere che il passaggio veloce, e da alcuni ritenuto realizzabile nell’immediato, a fonti rinnovabili, sostenibili e a zero emissioni di gas serra, sia un mito da sfatare. Si tratterà necessariamente di un processo lungo che dovrà contare, in questa sua prima fase, sul contributo di tutte le tecnologie disponibili, sugli interventi di sostegno dei governi e su importanti scelte strategiche degli stessi che permettano la progressiva decarbonizzazione del settore energetico rispondendo allo stesso tempo in maniera adeguata anche alle sfide della disponibilità e dell’accessibilità dell’energia (i.e. del costo) . Non ci potrà quindi essere sostenibilità energetica ed ambientale senza sostenibilità sociale ed economica: si rende necessario garantire cioè la cosiddetta “just transition”.

Un altro mito da sfatare è che le tecnologie disponibili oggi possano permettere da sole il raggiungimento della neutralità climatica al 2050. Una stima recente, fatta da alcune aziende del settore, dice che con le tecnologie attuali sarebbe possibile ottenere solo circa il 50% di riduzione di emissioni di CO2 equivalente entro il 2050. Sono necessari quindi ingenti investimenti in ricerca e sviluppo di tecnologie per l’energia innovative ed efficienti.

Occorre inoltre anche prendere atto che le rinnovabili da sole, eolico e solare in testa, e la massiccia elettrificazione dei consumi non possano essere sufficienti a risolvere il problema. Eolico e solare non sono controllabili nel tempo, sono variabili nell’arco del giorno e dell’anno, sono disponibili talvolta quando non servono e insufficienti nei periodi di picco dei consumi, oltre ad essere fortemente distribuite.

Si potrà ricorrere a soluzioni sempre più efficaci e “capienti” di stoccaggio energetico, cioè di immagazzinamento di energia per utilizzo successivo, non solo elettrochimico (i.e. batterie), ma nel breve-medio termine non è pensabile poter rinunciare ad alcune fonti fossili. In particolare il gas naturale, che fra le fonti fossili è la meno impattante dal punto di vista ambientale, sarà necessario per sopperire alla variabilità della produzione da rinnovabili. 

Non è neppure pensabile, inoltre, poter trasferire in tempi rapidi tutto il settore del trasporto dai motori a combustione interna ai veicoli alimentati a batterie. Per dare un dato di riferimento circa l’importanza di sviluppare nuove tecnologie, si tenga presente a titolo di esempio che solo per soddisfare le necessità di stoccaggio di rinnovabili di una grande città come Milano, tutta la produzione mondiale attuale di batterie a ioni di litio non sarebbe sufficiente. 

Un capitolo a parte è anche il tema, molto attuale, ma non nuovo, dell’idrogeno. E’ utile subito chiarire che l’idrogeno non è una fonte energetica primaria (i.e. non è disponibile in natura, ma deve essere prodotto attraverso processi industriali), ma è un vettore energetico: è comparabile all’energia elettrica che deve essere prodotta da una fonte primaria (i.e. da combustibili fossili, dal sole, dal vento o in altri modi) e che non si trova già pronta ad essere utilizzata. L’idrogeno offre il vantaggio di non produrre anidride carbonica quando bruciato, perché non contiene carbonio. Lo si può produrre attraverso processi elettrochimici (elettrolisi dell’acqua) usando energia elettrica da fonti rinnovabili   – ed in questo caso si parla di idrogeno verde – oppure da fonti fossili (gas naturale, carbone) attraverso processi di separazione del carbonio (cosiddetti reforming) con produzione di anidride carbonica, che può però essere catturata e sequestrata (in questo ultimo caso si parla di idrogeno blu). L’idrogeno ha però altre caratteristiche meno attrattive: un kg di idrogeno contiene più del doppio dell’energia di un kg di metano ad esempio, ma ne occupa otto volte il volume a condizioni ambiente. Inoltre per liquefare l’idrogeno occorre portarlo a temperature vicine allo zero assoluto (-253°C) che ne rendono l’uso in forma liquida estremamente complesso. L’idrogeno, comunque, una volta raggiunti livelli di costo accessibili e competitivi, potrà avere un ruolo importante nella transizione energetica, sia nel settore dei trasporti, in particolare marittimi, aerei e terrestri su lunghe distanze in alternativa ai veicoli a batteria (attraverso l’uso di motorizzazioni a celle di combustibile,processo inverso dell’elettrolisi, che convertono idrogeno ed ossigeno dell’aria in elettricità), sia nella decarbonizzazione dei settori industriali cosiddetti “hard to abate”, dove è più difficile abbattere le emissioni di gas serra, come ad esempio la siderurgia, laddove servano grandi quantità di energia termica difficilmente ottenibile dal vettore elettrico ed oggi normalmente prodotte dalla combustione di fossili, specialmente carbone. E’ un’ipotesi anche utilizzare l’idrogeno per lo stoccaggio di energia verde attraverso sistemi “power to gas” che sfruttino le rinnovabili in eccesso nei periodi di basso consumo per produrre idrogeno ed immetterlo, miscelandolo con il gas, direttamente nelle tubazioni usate per il trasporto del gas naturale o combinarlo con CO2 catturata di origine rinnovabile (“bio”) per la produzione di biometano sintetico. Un processo sicuramente non molto efficiente se poi lo stesso idrogeno venisse usato, anche se miscelato, per la produzione di energia elettrica, ma che permetterebbe di ottimizzare la produzione delle rinnovabili in una rete in cui queste fossero la fonte principale e prevalente. 

Un breve cenno è doveroso anche sul capitolo del “nucleare”, di per sè controverso e divisivo. Il cosiddetto nucleare a fissione, in cui l’energia viene rilasciata dalla rottura del nucleo dell’atomo di uranio 235, è una tecnologia che, pur essendo oggi molto più sicura di quanto non lo fosse per gli impianti costruiti negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, è attualmente in fase di progressivo abbandono. Difficile poter pensare ad una sua rinascita dopo gli eventi di Three Miles Island in Pennsylvania nel 1979, Chernobyl nel 1986 e, ultimo ,Fukushima nel 2011, che ne hanno messo a nudo le debolezze e le difficoltà di gestione. Peraltro, pur essendo una fonte energetica a zero emissioni, comporta tempi lunghi e costi altissimi per la realizzazione degli impianti e soprattutto un processo di smaltimento delle scorie radioattive a lungo tempo di decadimento che solo pochi paesi avanzati possono permettersi di affrontare in termini di costi, competenze, disponibilità di siti adeguati, gestione organizzativa ed accettazione dell’opinione pubblica. Ad oggi solo alcuni paesi, tra cui in Europa la Francia, sono rimasti legati all’utilizzo dell’energia nucleare mentre l’Italia ha abbandonato questa strada già alla fine degli anni ‘80 del 900 (anche a seguito del referendum del 1987, che, svoltosi in un clima di sentimento popolare antinucleare molto forte alimentato dalla paura dopo il gravissimo incidente di Chernobyl, portò alla dismissione delle centrali nucleari ancora attive in Italia) e la Germania, dopo aver annunciato l’uscita definitiva da nucleare e carbone negli anni scorsi, ha chiuso tre degli ultimi sei impianti rimasti a gennaio di questo anno (2022).

E’ la fusione nucleare però la sfida di lungo termine che la comunità scientifica sta studiando da tempo con l’obiettivo di arrivare nella seconda metà del secolo a una tecnologia capace di produrre grandi quantitativi di energia decarbonizzata e sicura. La fusione nucleare è la sorgente di energia del sole e delle stelle basata sulla fusione, ai livelli di temperatura e pressione che si formano all’interno del sole e delle stelle, degli isotopi di idrogeno (deuterio e trizio ricavabili uno dall’acqua e l’altro prodotto a partire dal litio direttamente all’interno del reattore), che danno origine ad atomi di elio rilasciando in questo processo grandi quantità di energia. A differenza della fissione, la fusione non genera score radioattive e, a differenza delle fonti fossili, non produce emissioni di gas serra.  Potenzialmente si tratta di una forma di energia illimitata e diffusa ovunque considerando che il consumo di deuterio e litio sarebbero molto bassi e che le riserve note garantirebbero i consumi energetici mondiali per alcuni miliardi di anni. La sfida tecnologica risiede però nel riuscire a riprodurre, mantenere e controllare le condizioni di pressione e temperatura necessarie per innescare e sostenere la fusione nucleare su scala industriale e con produzione netta di energia (ovvero energia prodotta maggiore di quella necessaria per sostenere le condizioni di fusione). Uno dei principali progetti in fase di realizzazione è l’ITER  (International Thermonuclear Experimental Reactor), un investimento da 20 miliardi di euro al quale partecipano Unione Europea (45,6%) ,USA, Russia, Cina, Giappone, India e Corea del Sud con quote paritetiche pari a circa il 9% ciascuno, che ha lo scopo della realizzazione a Cadarache, nel sud della Francia, di un impianto sperimentale che dimostri la fattibilità della produzione di energia da fusione, nello specifico 500 MW di potenza termica a fronte di 50 MW consumati per sostenere la reazione, con un fattore di amplificazione pari almeno a 10. Il primo plasma dovrebbe essere prodotto entro il 2025 e le prime operazioni a potenza nel 2035. Ci sono altri progetti in fase avanzata di sviluppo, ma nessuno di questi al momento è in grado di garantire una soluzione industriale nella prima metà del secolo.

La fusione nucleare, che è la tecnologia che dovrebbe definitivamente risolvere le necessità di approvvigionamento energetico del pianeta, è quindi un orizzonte che si posiziona nella seconda metà, se non alla fine del secolo in corso.  

Le realtà

Concludiamo riassumendo in breve le quattro realtà che non possono e non devono essere ignorate quando si parla di transizione energetica. 

La prima è che l’energia, disponibile ed accessibile, è indispensabile per lo sviluppo delle economie e la crescita del benessere delle società,ma che il cambiamento climatico innescato dall’innalzamento delle emissioni in atmosfera, se non affrontato adeguatamente, può provocare danni molto più grandi.

La seconda realtà è che la strada da percorrere passa necessariamente dalla tecnologia e che questa deve essere neutrale rispetto alla fonte utilizzata, cioè deve svilupparsi verso maggiori efficienze e minori emissioni, indipendentemente dalla risorsa che utilizza. Alcune fonti tra le cosiddette fossili ed in particolare il gas naturale, che, come già detto, tra queste è la più virtuosa dal punto di vista ambientale, saranno necessariamente parte del percorso di transizione almeno fino al 2050, accompagnate da tecnologie di efficientamento degli utilizzi e di cattura della CO2 che ne permettano l’uso ad emissioni sempre decrescenti o minime.

Ciò che è importante è la quantità di emissioni e questo indipendentemente dalla risorsa energetica primaria. Grazie allo sviluppo della tecnologia  sarà possibile raggiungere un‘importante riduzione dei consumi finali in tutti i settori industriali e negli usi domestici. Anche la diffusione di una cultura dell’energia sempre più presente a tutti i livelli della popolazione, che favorisca consapevolezza e guidi comportamenti virtuosi, potrà dare un contributo di grande rilievo.

Con l’introduzione di nuove tecnologie, inoltre, si svilupperanno nuove filiere (ad esempio la filiera dell’idrogeno o delle batterie) che sarà importante far crescere e mantenere all’interno dei confini nazionali ed europei per assicurare sia l’indipendenza tecnologica, che una giusta transizione sociale, mantenendo in Italia e in Europa, cioè, i posti di lavoro che tali nuove filiere potranno creare. 

La terza è che gli investimenti necessari per raggiungere gli obiettivi della carbon neutrality sono e saranno ingenti e non possono prescindere da un’azione coordinata di sistema tra pubblico (governi e sistemi di rcerca pubblica) e privato (aziende e sisteami di ricerca privata):in questa collaborazione i governi devono stabilire le linee di indirizzo e creare gli strumenti finanziari di supporto sia per alimentare la ricerca di base nelle università e nei centri di ricerca, che per incentivare gli investimenti dei privati e le aziende devono allocare risorse sempre più importanti nello sviluppo e nella realizzazione di soluzioni tecnologiche sempre più efficaci ed efficienti. L’EU Green Deal ha allocato 100 miliardi di euro di risorse pubbliche nel periodo 2021- 2027, ma quelle private necessarie entro il 2030 sono da quattro a cinque volte maggiori. Sarà quindi indispensabile poter convogliare le risorse degli investitori finanziari garantendo condizioni attrattive che dovranno essere garantite oltre agli incentivi. La quarta ed ultima realtà è che lo sforzo per la transizione energetica non potrà che essere globale. L’Europa conta per meno del 10% del totale delle emissioni annue di CO2 equivalente, l’Italia per circa l’1%. I grandi “emettitori”, che sono USA, Cina ed India, mostrano meno convinzione nell’allinearsi alle ambiziose strategie ambientali europee. E’ evidente che bisognerà continuare a lavorare alla costruzione di un piano comune e maggiormente condiviso. Infine è necessario notare che esistono settori economici non legati all’energia o all’industria che sono fonti importanti di emissioni di gas clima alteranti: tra questi si annovera in particolare l’agricoltura sulla quale bisognerà sviluppare un piano dedicato mirato a garantire la sostenibilità.