Ti racconto la malattia Covid-19, a cura del dottor Giuseppe Berardi

In natura esistono oltre cento milioni di virus, circa cento volte più piccoli di una cellula normale. 

Le origini dei virus non sono ancora chiare, mentre loro compito è quello di replicarsi.

Tutte le forme di vita possono essere infettate dai virus, dall’uomo agli animali, alle piante, ai microrganismi (come i batteri e anche altri virus).

I virus sono “microrganismi intracellulari”, cioè capaci di moltiplicarsi solo all’interno delle cellule che hanno infettato, mentre all’esterno delle cellule, nell’aria ambiente e su ogni tipo di superficie, riescono a sopravvivere per poche ore o giorni, senza potersi replicare.

All’uomo possono arrivare attraverso le vie respiratorie o per ingestione, con la puntura di insetti (zanzare, zecche, ecc), i rapporti sessuali e le trasfusioni di sangue contaminato.

I virus sono formati da una parte centrale, il “genoma virale”, e da un involucro esterno di proteine, il “capside”.

Il genoma virale contiene materiale genetico, rappresentato dall’acido nucleico RNA oppure DNA, costituito da migliaia di geni che contengono tutte le informazioni necessarie affinché il virus possa sopravvivere e riprodursi con il necessario supporto di molecole e strutture delle cellule infettate; questo è il motivo per cui i virus non sono in grado di replicarsi al di fuori delle cellule. 

A seconda che il genoma del virus sia costituito da RNA oppure da DNA, entrambi necessari per la loro replicazione, si distinguono “virus a RNA” e “virus a DNA”.

La gran parte dei virus è a RNA, più instabili di quelli a DNA, nel senso che, durante la replicazione, sono più soggetti a modificare le caratteristiche del loro genoma e la struttura delle proteine del capside (mutazione).

Tra i virus a RNA rientra la famiglia dei Coronavirus SARS-CoV-2, responsabile della malattia COVID-19.

Durante la loro replicazione all’interno delle cellule che infettano, a seguito di possibili mutazioni (variazioni del genoma e delle proteine del capside), alcuni virus possono fare un salto di specie, come il SARS-CoV-2, che sviluppatosi inizialmente negli animali si è poi trasferito all’uomo, quando l’animale infetto è venuto a contatto con un individuo suscettibile all’infezione.

Le proteine del capside virale possiedono due proprietà fondamentali:

a) rappresentare la maggiore sorgente antigenica dei virus; l’organismo per combattere un patogeno proveniente dall’esterno deve prima di tutto riconoscerlo e lo fa identificando suoi costituenti o parti, definite “antigeni”. Gli antigeni di elezione per i virus sono le proteine del capside, che, percepite come estranee e potenzialmente pericolose, attivano la risposta di difesa immunitaria;

b) l’essere indispensabili per avviare l’infezione virale.  Difatti, i virus utilizzano le proteine del capside per riconoscere e ancorarsi a recettori specifici e “corrispondenti” posti sulla superficie della cellula bersaglio; solo dopo tale interazione virus/cellula, il virus può penetrare nella cellula avviando il processo di replicazione.  Per questo motivo i virus non sono capaci di infettare tutte le cellule, ma solo un particolare tipo (ad es. i virus del raffreddore infettano solo le cellule delle vie aeree superiori); alcuni infettano solo l’uomo, altri invece sono specifici per piante e animali, perché, grazie al capside, riconoscono e “agganciano” esclusivamente specifici recettori a loro complementari, posti sulla superficie esterna di un tipo di cellula e non di altre, che ne permettono l’entrata e quindi l’infezione.

E’ così che molecole capaci di impedire l’interazione tra le proteine del capside virale e i recettori della cellula sono potenzialmente in grado di prevenire l’infezione; con questo meccanismo agiscono alcuni farmaci e i vaccini contro la malattia COVID-19. 

Come già detto, durante la replicazione, i virus spesso modificano il loro genoma e le proteine del capside, generando virus diversi rispetto alla forma originale. Tale fenomeno, definito “mutazione”, porta alla comparsa di “varianti del virus”. È scontato che più il virus circola e si replica, maggiori sono le possibilità di mutazioni e l’arrivo di varianti, come sta oggi verificandosi con la malattia COVID-19.

In milioni di anni di storia evolutiva migliaia sono state le mutazioni dei virus; i nuovi geni introdotti, oltre a cambiare continuamente il patrimonio genetico virale, sono stati incorporati nel genoma delle cellule umane, diventandone parte integrante.

Nella gran parte dei casi la mutazione ha un impatto minimo o nullo sulle proprietà del virus e, di conseguenza, sull’infezione che induce.

Da altre mutazioni, singole o combinate, possono invece derivare virus molto diversi rispetto agli originari, caratterizzati dalla capacità di riconoscere un maggior numero di cellule da infettare e dall’abilità di sfuggire alla memoria immunologica del sistema immunitario attivato precedentemente dal virus originario; è questa la cosiddetta “evasione immunitaria” (meglio definita in seguito).

È raro, ma possibile, che, come già accennato, la mutazione renda il virus capace d’infettare una specie diversa da quella abituale, come è accaduto con il SARS-CoV-2, che è passato dall’animale all’uomo e continua a mutare moltiplicandosi nella specie umana. 

Nell’evoluzione ospite/patogeno si è sviluppato un delicato equilibrio, grazie al quale, mentre il sistema immunitario, deputato alla difesa dell’organismo, ha affinato mezzi per neutralizzare più patogeni possibili, i patogeni hanno elaborato modalità di evasione verso tali mezzi.

Compito del sistema immunitario è distinguere le molecole dei tessuti dell’organismo, che percepisce come proprie, non pericolose, verso le quali non si attiva (“tolleranza al self”), da quelle non presenti naturalmente nei tessuti dell’organismo, a struttura insolita e diversa, che avverte estranee e potenzialmente nocive, contro cui invece sviluppa una risposta protettiva (“reattività al non self”, come quella indotta da virus, batteri, cellule danneggiate, ecc.).

E’ lo stesso patogeno penetrato nelle cellule ad attivare il sistema immunitario; in poche ore o addirittura minuti, le cellule infettate producono sostanze solubili (le citochine) che, con il supporto di specifiche cellule e altri costituenti umorali, inducono e coordinano una reazione infiammatoria, il cui scopo è quello di opporsi alla moltiplicazione del patogeno e alla sua diffusione dalla sede in cui è iniziata l’infezione. 

Le reazioni indotte da questa prima linea di difesa, detta “immunità innata”, sono generiche e aspecifiche, cioè sempre le stesse, qualunque sia l’agente estraneo (virus, batteri, ecc.).

Spesso l’immunità innata non riesce a debellare l’infezione nel punto d’ingresso del patogeno ed è essa stessa ad attivare una seconda linea di difesa, detta “immunità acquisita”, costituita da vari tipi di globuli bianchi, i linfociti B e T, i quali, diversamente dall’immunità innata, agiscono in modo selettivo contro il particolare patogeno che ha indotto l’infezione. Tali cellule, prima individuano ed etichettano l’agente estraneo, riconoscendolo attraverso alcune sue specifiche componenti strutturali, gli “antigeni” (nel caso dei virus, l’antigene è rappresentato principalmente dalle sue proteine di superficie, facenti parte del capside), e poi cercano di neutralizzarlo in vari modi: 

– i linfociti B: producono anticorpi che attaccano direttamente il virus, lo etichettano e passano l’informazione ad altre cellule (fagociti) capaci di inglobare e distruggere quelle malate;

– i linfociti T, di diverso tipo, agiscono con differenti azioni:

     . i citotossici, secernono sostanze capaci di uccidere le cellule malate;

     . gli helper, supportano l’azione dei linfociti B, dei killer (citotossici) e dei fagociti;

     . i T regolatori, inibiscono la risposta immunitaria quando l’infezione è stata debellata, bloccando i linfociti B e T e ricreano uno stato di equilibrio. 

Nei casi di successo, quando l’individuo ha contratto la malattia e ne è guarito, si selezionano particolari linfociti B e T, capaci di riattivarsi prontamente in caso di una nuova infezione con lo stesso patogeno. Tali cellule, chiamate “cellule della memoria immunologica”, sono sempre pronte a intervenire per combattere lo stesso patogeno, anche molti anni dopo la prima infezione.

Praticamente, se lo stesso patogeno entra per la seconda volta nell’organismo, essendo stato già incontrato dal sistema immunitario, viene subito identificato e poi bloccato da anticorpi diretti in modo selettivo contro di esso e la malattia non si sviluppa. 

Questo meccanismo della “memoria immunologica” per uno specifico patogeno (virus o batterio) può essere attivato nel sistema immunitario di qualsiasi individuo:

a) sia in modo naturale, attivamente, attraverso la malattia evoluta in guarigione, come finora illustrato;

b) sia in modo artificiale, passivamente, con le vaccinazioni.

Di fatto, sia l’infezione naturale causata da uno specifico patogeno, sia la vaccinazione contro il medesimo microrganismo, inducono, in modo quasi simile, la protezione immunitaria verso sue possibili successive reinfezioni.

La “vaccinazione” va ovviamente praticata solo in individui che non hanno mai contratto quella malattia per la quale si vuole vaccinarli (ad es. è inutile praticare il vaccino contro il morbillo se il soggetto lo ha precedentemente contratto e ne è già protetto dopo la prima infezione).

Il vaccino, dovendo simulare l’ingresso del patogeno nell’organismo, per comportarsi da antigene e riuscire nel suo intento, deve necessariamente contenere una frazione dell’agente infettivo verso il quale si vuole ottenere l’immunizzazione. Abitualmente il vaccino è composto dallo stesso patogeno vivo e attenuato o morto, oppure da un suo frammento (una proteina o un pezzo di materiale genetico).

Le componenti del vaccino, “inerti” perché incapaci di provocare la malattia, funzionando da antigene, inducono la produzione di linfociti della memoria nello stesso modo dell’infezione vera e propria provocata dall’agente infettivo dal quale si vuol proteggere l’individuo con la vaccinazione.

Se il soggetto vaccinato entra successivamente in contatto con quel patogeno, il sistema immunitario lo riconosce e lo combatte prontamente con la produzione di anticorpi specifici.

Il miglior vaccino è quello che blocca a monte la malattia, impedendo al microrganismo di diffondere nell’organismo, evitando così la malattia.

Purtroppo, la durata di protezione dei vaccini, quindi la loro efficacia nel tempo, varia a seconda della malattia in questione: alcuni proteggono solo per brevi periodi e necessitano di dosi di richiamo, altri per tutta la vita.

La malattia COVID-19

La malattia COVID-19 (CoronaVirusDisease–2019) è causata dal coronavirus SARS-CoV-2 (Coronavirus 2 della SARS), un virus a RNA, molto instabile, quindi predisposto a mutazioni, e con maggiori capacità rispetto ad altri virus di sopravvivenza nell’aria ambiente e sulle diverse superfici (ore o giorni).

Si trasmette per via aerea e si annida elettivamente nelle vie respiratorie superiori e inferiori dei pazienti infetti, pur potendo la malattia che induce, specie se severa, interessare vari organi o apparati (cuore, sistema digerente e nervoso, ecc.).

Sviluppatosi inizialmente nell’animale, il virus ha subito un salto di specie e si è trasferito all’uomo, in cui per continui cambiamenti del genoma e delle proteine di superficie, è andato incontro a molteplici mutazioni, con la comparsa di numerose varianti, osservate in tutto il mondo.

Le proteine del capside del SARS-Cov-2, che prendono il nome di “proteina spike o proteina S”, sono capaci di legare recettori specifici, a loro complementari, noti come ACE-2, posti solo sulle cellule predisposte a essere infettate.

Al pari degli altri virus, anche il SARS-CoV-2 utilizza come “cavallo di troia” le proteine di superficie spike per penetrare nelle cellule, in cui poi si riproduce. Di conseguenza, ciò che è capace d’impedire l’interazione tra le proteine spike e i recettori della cellula è potenzialmente idoneo a prevenire l’infezione.

Di fatto, i vaccini anti COVID-19 finora messi a punto inducono una risposta immunitaria in grado di produrre anticorpi che bloccano le proteine spike, impedendo al virus di entrare nella cellula e d’infettarla.

I costituenti di tali vaccini sono frammenti di materiale genetico o di proteine del SARS-CoV-2, verso il quale si vuole proteggere l’individuo con la vaccinazione; i componenti del vaccino, incapaci di causare la malattia, penetrati nelle cellule del vaccinato, posseggono l’informazione necessaria a produrre la sola corrispondente proteina spike (non il virus). Questa proteina, percepita come estranea dall’organismo, funge da antigene e attiva il sistema immunitario, che ne acquisisce la memoria immunologica, come se il virus vero e proprio avesse invaso e infettato l’organismo. Qualora, successivamente, il soggetto già vaccinato venisse a contatto con quello specifico virus, il suo sistema immunitario sarebbe predisposto e pronto a produrre anticorpi specifici che, legandosi alle proteine spike, impedirebbero al virus di entrare nelle cellule e d’infettarle. 

ell’individuo e inducono la produzione di proteina spike, la quale, a sua volta, attiva la memoria del sistema immunitario, pronto a intervenire producendo anticorpi specifici contro il virus, qualora questi raggiungesse successivamente il vaccinato), due sono “vaccini a vettore virale” (Astra Zeneca e Johnson & Johnson, che utilizzano un virus, reso inoffensivo, per veicolare nelle cellule del soggetto vaccinato frammenti di materiale genetico di SARS-CoV-2, adeguato a produrre la proteina spike; quello che poi avviene è simile a quanto detto per i vaccini a mRNA) e uno è un “vaccino a subunità” (Novavax, che impiega una proteina o suoi frammenti di SARS-CoV-2). 

Cosa accade se il virus reinfettante è sempre lo stesso oppure una variante. Reinfezioni con lo stesso virus  

Finora si è certi che la struttura della proteina spike del SARS-CoV-2, con cui l’individuo viene a contatto per la prima volta attraverso l’infezione naturale o la vaccinazione, è quella che modula la risposta immunitaria verso eventuali successivi incontri “con lo stesso virus”. Di fatto, il primo contatto dell’individuo con un dato virus induce una risposta immunitaria con l’acquisizione di una memoria immunologica specifica per quel patogeno. Peraltro, l’efficacia nel tempo di tale protezione verso uno specifico virus subisce un costante e progressivo declino, variabile da soggetto a soggetto, che secondo gli studi finora condotti sembra raggiungere livelli molto bassi dopo circa nove mesi dall’avvenuta infezione o vaccinazione. 

Pertanto, dato che l’efficacia della risposta immunitaria varia in funzione del tempo che intercorre tra la prima immunizzazione (ottenuta con l’infezione o la vaccinazione) e il successivo arrivo dello stesso virus: 

se il tempo trascorso è breve, di soli pochi mesi, il virus si scontra con un sistema immunitario che, avendolo già etichettato e ancora ben presente nella memoria, si riattiva in modo rapido ed efficace con la produzione di anticorpi specifici che evitano il suo ingresso nelle cellule e quindi la malattia; diversamente, 

se il tempo intercorso è più lungo, il sistema immunitario può a volte rispondere in modo meno efficace, non riuscendo a impedire al virus di penetrare nelle cellule e all’infezione di evolvere in malattia. Peraltro, nella gran parte di questi casi, la malattia si manifesta in forma meno grave rispetto a quella che interessa soggetti mai infettati o vaccinati.                                 

Reinfezioni con virus mutati 

Discorso a parte meritano i virus mutati, quelli che attualmente circolano di più, che riescono a “sfuggireeludere” il sistema immunitario di soggetti precedentemente immunizzati da virus con differenti connotati antigenici; praticamente, il sistema immunitario, non riconoscendoli come una variante del virus con cui è venuto precedentemente a contatto, si attiva e lo affronta come un nuovo patogeno. È questa la cosiddetta “fuga immunitaria”, attuata dalle più recenti varianti. 

Per tale motivo, i soggetti che incontrano virus mutati possono ammalare, anche se immunizzati precedentemente per virus con diversi caratteri antigenici. 

L’Istituto Superiore di Sanità ritiene che, in ogni caso, nell’eventualità d’infezione anche con le recenti varianti, il vaccino praticato, pur se non specifico per queste, limita la possibilità che la malattia COVID-19 si sviluppi in forma grave; pertanto, un richiamo con la quarta dose di vaccino è raccomandata in coloro che hanno più di sessanta anni, nelle persone fragili per patologie concomitanti/preesistenti a partire da 12 anni e negli operatori sanitari.

Di conseguenza, con le nuove varianti, i soggetti già vaccinati possono ammalare come quelli mai vaccinati, ma rispetto a questi svilupperanno una malattia meno grave.

Diagnosi di COVID-19

La diagnosi di “infezione in atto di COVID-19 è possibile con i tamponi oro-naso-faringei”:

–        “tamponi molecolari”, che identificano frammenti di RNA virale;

–        “tamponi antigenici o rapidi”, che evidenziano le proteine antigeniche di superficie del virus.

Diversamente, i cosiddetti “tamponi salivari” ricercano l’RNA virale o le proteine di superficie del virus presenti nella saliva. 

È possibile invece rilevare la presenza di anticorpi anti spike nel sangue di individui che hanno già contratto l’infezione e ne sono guariti o che sono stati vaccinati da almeno alcune settimane, attraverso i “test sierologici quantitativi per la ricerca di anticorpi anti proteina spike del SARS-CoV-2.

Tali test, praticabili con un semplice prelievo di sangue, “non idonei per evidenziare l’infezione in atto”, trovano la loro principale utilità: a) per confermare una precedente infezione, in particolare negli individui in cui il contagio è passato sotto forma misconosciuta; b) negli screening epidemiologici per stimare la diffusione dell’infezione all’interno di una comunità.

Al momento, non è stata ancora definita una determinata correlazione tra “quantità di anticorpi anti spike presenti nel sangue e livello di protezione acquisita con l’infezione o la vaccinazione”; praticamente, una maggiore presenza di anticorpi nel sangue non è attendibile per esprimere un grado superiore di protezione e viceversa.

Ne consegue che i “test sierologici quantitativi”, a prescindere da qualunque sia il risultato, sono di poca utilità nel fornirci indicazioni: a) sul reale grado di protezione acquisita contro una eventuale re-infezione da COVID-19 nei soggetti già infettatisi o vaccinati; b) sull’opportunità o meno di sottoporsi a vaccinazione (è infatti errata la credenza, secondo la quale, “se hai alti livelli di anticorpi anti spike nel sangue, sei protetto da eventuali future infezioni oppure non conviene vaccinarti”).

Varianti del virus SARS-CoV-2 e loro problematiche Partendo dal ceppo originario SARS-CoV-2 di Wuhan in Cina, il virus ha subito finora molteplici mutazioni, per arrivare alle attuali varianti e sottovarianti Omicron, diverse dal virus originario sia nel genoma che nella struttura delle proteine spike.

La variante Omicron 5 (BA.5) e quelle ancora più recenti, che coinvolgono prevalentemente le vie aeree superiori (simulando molto spesso una sindrome influenzale) e meno i polmoni (con minor numero di morti per patologie polmonari), sebbene meno gravi, sono attualmente motivo di preoccupazione e devono essere attentamente monitorate per la loro ampia diffusione:

– il virus mutato riconosce un maggior numero di cellule come bersaglio da infettare, più numerose nelle alte vie aeree e meno nei polmoni;

– il virus mutato circola di più, infettando una maggiore quantità di persone, anche quelle che hanno già contratto la malattia e\o sono state vaccinate durante la prima fase pandemica; queste sono recettive alle nuove varianti quasi come coloro che non sono mai stati malati o non sono stati vaccinati. Inoltre, giocano un ruolo decisivo le più blande restrizioni governative e la minore attenzione da parte dei cittadini, in cui la patologia spesso non ha sintomi o viene confusa con una sindrome influenzale. Molti individui poi, in modo incauto, al fine di non sottoporsi a isolamento, troppo spesso non denunciano la malattia anche se manifesta, diagnosticata con tamponi “fai da te”.

Considerazioni

Allo stato attuale non c’è alcuna certezza di cosa ci aspetta, con la possibilità che nasca una nuova variante in grado di sconvolgere le previsioni, nel bene o nel male.Lo scenario futuro esclude che si possa raggiungere un’immunità di gregge, come pure l’eradicazione del virus attraverso una copertura vaccinale che rapidamente coinvolga buona parte della popolazione mondiale.

L’ipotesi più probabile è che, nel migliore dei casi, si evolva verso una stabilizzazione endemica, un’infezione che verosimilmente non si esaurirà mai completamente, come l’influenza stagionale, sufficientemente sotto controllo, al prezzo di epidemie occasionali, in parte stagionali, con la necessità di praticare periodicamente il vaccino COVID insieme a quello influenzale, raccomandabile a tutti o solo alle fasce di popolazione a rischio.

Si prevedono in questo secolo nuove epidemie, che tutto il mondo vivente dovrà affrontare; l’augurio è che l’esperienza passata possa rivelarsi utile per fronteggiare tali emergenze sia con adeguati atteggiamenti sia con l’appropriato uso di mezzi di protezione che abbiamo imparato ad adoperare e soprattutto con una necessaria programmazione e gli stanziamenti per i sistemi sanitari, in termini di risorse umane e tecnologiche.

IL LIBRETTO ILLUSTRATO