di Marianna Meffe
Parlando di soluzioni innovative contro la plastica negli oceani, dopo l’Interceptor, un’altra fantasiosa trovata arriva sempre dall’Olanda: si tratta della Bubble Barrier, una barriera di bolle che letteralmente blocca la plastica che si trova nei fiumi prima che possa completare il suo corso e arrivare negli oceani.
Questa idea nasce da un’esigenza ben precisa: infatti, le milioni di tonnellate di rifiuti che arrivano nei nostri mari ogni anno, provengono principalmente dalla terraferma; l’apporto di navi e piattaforme oceaniche contribuisce solo per il 20%.
E i fiumi, viaggiando dall’entroterra, sono i maggiori contribuenti all’inquinamento marino.
Per questo la Bubble Barrier è stata progettata appositamente per essere usata lungo fiumi cittadini, dalla portata bassa o tutt’al più modesta, per preventivare alla fonte l’ingresso dei rifiuti nel mare.
Il concetto alla base è tanto semplice quanto efficace: attraverso un tubo forato posto sul fondo del fiume si pompa aria verso l’alto. Le bolle in aumento diventano una corrente che trascina i rifiuti che incontra sino in superficie.
Grazie alle correnti naturali del fiume, poi, il flusso viene diretto di lato, per impedire che i rifiuti scendano a valle, il tutto senza apportare il minimo danno agli abitanti delle acque e agli ecosistemi marini.
La sua forza sta nel non essere una barriera fisica (come una rete) e quindi non interferire con la vita acquatica e la pesca. Anche le navi possono transitare senza problemi.
Messa in opera per la prima volta lungo il fiume IJssel nel 2017, la Bubble Barrier si è dimostrata capace di bloccare fino all’86% di tutta la plastica che viaggiava nel fiume (e anche nella più disperata condizione meteorologica questo risultato veniva mantenuto).
Gli studi hanno dimostrato che la Bubble Barrier riesce a intercettare anche particelle molto piccole, fino a dimensioni di 1 mm: il problema è che le nostre care microplastiche (i prodotti finali della fotodegradazione della plastica, di cui parlavamo qui) possono raggiungere anche dimensioni dell’ordine dei micrometri. Per quanto la Bubble Barrier intervenga a monte del percorso, prima che la plastica abbia viaggiato a lungo, e sia quindi meno frequente incontrare delle microplastiche, è comunque possibile che qualcosa riesca a sfuggire alla cattura (probabilmente è a questo che si riferisce il limite dell’86% di cui parlavamo prima).
Di certo è una metodologia di prevenzione interessante e si sta già studiando per importarla su altri corsi d’acqua: ma resta comunque prevenzione. La plastica raccolta viene poi mandata al riciclo o in discariche controllate, ma continua ad esistere. Perché, ancora una volta, il problema è l’immortalità di questo materiale.
I progettatori della Bubble Barrier hanno raccontato che i rifiuti più frequentemente incontrati sono prodotti per l’igiene personale (come cotton fioc o salviettine) e usa e getta, come cannucce o bottiglie.
Insomma, prodotti facilmente sostituibili, dato che le alternative ecologiche oggigiorno non mancano di certo.
Il problema resta, ancora una volta, il nostro approccio alla plastica. La Bubble Barrier può lavorare al massimo e su tutti i fiumi del mondo, ma non potrà salvarci a lungo se non risolviamo prima il problema culturale alla radice: siamo una società dipendente dalla plastica. E non si risolverà tutto in una bolla di sapone.
Nel tentativo di governare la vita attraverso i mille usi della plastica, alla fine non ci siamo accorti che è stata lei a governare noi.