Anche i molisani sono “pazienti”. Anzi, anche troppo. Sia nel senso che la percentuale della popolazione lungodegente è più alta, a causa della sua anzianità; sia perchè, dopo la parentesi dei sanniti, si sono abituati a subire. Eppure, il bilancio della nostra regione dovrà essere gestito, per oltre l’80 per cento (l’incidenza della sanità), dall’esterno.
Premetto che sono convinto che alcuni settori della res publica – mai come in questo caso, vitali per i cittadini – dovrebbero ritornare nelle mani dello Stato, per garantire maggiori omogeneità, democraticità ed efficienza delle prestazioni e contrastare sperperi e corruttele di cui le regioni (nessuna esclusa) hanno fatto sfoggio per decenni. Quindi non mi appassionano le prove muscolari – “tocca solo a me”, contro “al governo nazionale ci siamo noi” – che non possono essere fatte sulla pelle delle persone.
Ma non c’è niente di peggio, nella produzione legislativa, e soprattutto nel rapporto tra potere e cittadini, dell’ipocrisia e della finzione. Le cose vanno chiamate con il loro nome. Ed allora, o il centralismo sanitario vale per tutti o per nessuno.
Nella prima ipotesi, il rispetto dei principi di uguaglianza ed equità troverebbe necessariamente un momento di sintesi nel bilanciamento degli interessi fra i diversi fabbisogni territoriali. Nel secondo, pagano soltanto le comunità delle autonomie azzoppate. E, sempre per non incorrere in infingimenti, diciamola tutta: commissariare l’ottanta per cento del bilancio, equivale a commissariare la regione.
Del resto, sul piano pratico, è inagibile coniugare l’iniziativa del socio di maggioranza – il detentore della politica sanitaria – con quella degli amministratori regionali che si occupano di agricoltura, trasporti, turismo, politiche sociali, istruzione, lavori pubblici, ecc. Trattandosi di un bilancio unico, i secondi dovranno governare i residui (gli scarti di magazzino) del primo?
Se le regioni, in base al Titolo V della Costituzione, godono di autonomia e, giustamente, gli amministratori devono rispondere delle loro scelte nei confronti degli elettori, la gestione di un mondo così decisivo per le sorti di un popolo e per un’aspettativa che si iscrive tra i diritti fondamentali dell’uomo – quello alla salute – non può essere in “conto terzi” od affidata ad interposizioni fittizie: un amministratore di diritto – il presidente della regione – che deve metterci la faccia, fare i conti con il consenso popolare, fare quadrare i numeri di un bilancio per quattro/quinti appaltato; un amministratore di fatto, il commissario, di cui a stento si ricorderà il nome, il costo, la padronanza della specifica realtà sociale, e che – qualunque cosa accada – tornerà a casa, sereno, alle sue antiche mansioni.
Anche nel recente passato, invero, non si è mai effettivamente saputo quale “manina” vi fosse dietro decisioni, spesso scellerate, di conduzione del servizio sanitario; quali risultati abbiano realmente prodotto sub-commissari e suggerimenti degli organismi tecnici nazionali, se non la certezza di costi aggiuntivi. Non funziona così. E’ come se un artista fosse costretto a cantare sul palco – ed a prendere i fischi – con la voce di un altro.
Il vuoto di potere, che si è determinato con la mancata indicazione dell’amministratore di fatto della regione, è uno schiaffo alla dignità di una popolazione e, per certi versi, un’omissione di atti di ufficio o, quanto meno, di soccorso. Peraltro, la governance tecnica del comparto è assicurata dai vertici dell’ASREM – tutti esperti manager di provenienza extra-regionale – ed allora non si comprende perché gli indirizzi di politica sanitaria non possano essere elaborati, se non dal governatore, almeno da professionisti di estrazione locale, che vantino esperienze nel ramo e conoscano orografia e morfologia del territorio.
Chi – giustamente – si indigna e cerca colpevoli per il tragico prezzo di sangue della caduta di un ponte, dovrebbe, a maggior ragione, preoccuparsi del crollo e della morte civile di una regione sua figlia. Perché la gente muore per i ritardi degli interventi, per la chiusura di reparti salva-vita, per la confusione delle risposte organizzative e logistiche, per i veti incrociati. Una fine con il silenziatore, un’eutanasia, un’estinzione a rate, metafora di una comunità coperta di cambiali, a causa di un’economia ridotta in cenere.
La prova provata che la passerella di big durante la campagna elettorale delle regionali – quando il Molise sembrava diventato l’ombelico del mondo – non era altro che una gita fuori porta. Quando una società rimane senza amministratori, e non c’è possibilità di sostituirli, si devono portare i libri in tribunale.
E’ ora che il Molise porti i registri della sua Storia dinanzi al Parlamento, per chiedere se ha diritto di sopravvivenza. Così, almeno, si vedrà chi gli avrà inferto l’ultimo colpo.