GIUSEPPE CAROZZA
Che particolarmente la prima quindicina di agosto costituisca, non solo per la nostra realtà regionale, ma per l’intero Paese, una sorta di frullatore all’interno del quale, vuoi per la voglia di vacanza dei nostri connazionali, vuoi per quello strano gusto dell’inventiva tipicamente italico, si passa al setaccio tutto quello che nasce nella mente di questo o di quello, è risaputo; ciò che invece non sempre diventa oggetto di un vero e proprio discernimento è stabilire un plausibile discrimine fra quanto realmente è funzionale, ad esempio, alla cultura, alle tradizioni o alla semplice conoscenza di un territorio e quanto in effetti è semplicemente occasione per un richiamo occasionale e senza alcuna conseguenza per il futuro di questo o di quella località. Già altre volte da queste stesse colonne e da personalità sicuramente più autorevoli di chi scrive è stato evidenziato come si stia vivendo in un contesto caratterizzato quasi da un esasperato senso della esagerazione: esagerazione a livello mediatico allorché, ad esempio, un evento sportivo ancorché strabiliante venga descritto in maniera oltremodo “rumorosa” con l’unico scopo di creare intorno un effetto da urlo, senza tener conto al contrario degli effetti positivi che potrebbe far nascere a livello emulatorio; esagerazione, ancora, nel voler quasi divinizzare il termine “vacanza”, dandogli unicamente il valore di libertà assoluta di fare qualsiasi cosa, a prescindere dal senso etico-morale che una tale determinazione possa avere, soprattutto per le future generazioni.
Ora, che una certa abitudine a concepire il periodo di riposo agostano, di per sé giusto e sacrosanto per ciascuno, in tali termini stia prendendo piega pure dalle nostre latitudini regionali è un’impressione diffusa e tale, comunque, da suscitare non poche perplessità in tutti coloro che, bene o male, hanno davvero a cuore la storia passata e il destino futuro del Molise. Certo, occorre ancora fare i conti con una pandemia della quale, nonostante si voglia far finta di non voler discutere con le stesse ansie di qualche mese fa, sarebbe assurdo e da irresponsabili tacere; ma proprio alla luce di questa consapevolezza sarebbe stato o sarebbe opportuno magari riflettere sulla eventualità di promuovere soluzioni alternative al cosiddetto turismo di massa che, in qualche modo, potrebbe costituire – inutile negarlo – un motivo più di preoccupazione per il diffondersi ancora virulento del virus che di riposante appagamento. Ben continui dunque la doverosa pubblicizzazione delle nostre spiagge, ma quanto potrebbe dare, in termini di conoscenza intelligente del nostro territorio, anche la ulteriore valorizzazione di quelle realtà socio culturali del Molise che, forse con eccessiva faciloneria, vengono quasi ristrette nella cerchia del cosiddetto “turismo religioso”? Se si eccettua infatti qualche eroico tentativo da parte di pochi cultori della materia in questione, il settore in parola continua ad evidenziare un’attenzione poco più che sufficiente da parte degli organi preposti alla sua crescita. Eppure, nel caso dei nostri centri grandi e piccoli, c’è solo l’imbarazzo della scelta circa i siti sui quali far cadere la giusta attenzione. Non potendo in questa sede, per ovvie ragioni che il lettore comprenderà facilmente, fare dei puntuali ed analitici riferimenti, ci si limiterà comunque a segnalare alcune mete che, a livello esemplificativo, potrebbero costituire degli utili punti di riferimento in termini di valorizzazione e sviluppo. In tal senso un posto significativo occupa, a nostro parere, l’intera vallata del Fortore con l’insieme di tutte quelle edicole mariane che, soprattutto in questo mese di agosto ed in coincidenza con la solennità dell’Assunta del prossimo giorno 15, fino a qualche anno fa costituivano degli interessanti centri di aggregazione sia per credenti sia per semplici turisti. Da Gambatesa a Macchia Valfortore in particolare, le cappelle rurali collocate o sulle alture dei monti o in prossimità del fiume, con i loro variegati richiami a lontani periodi di storia medievale, arricchiscono il già variegato paesaggio naturalistico della zona con le loro memorie in grado di rievocare spazi temporali capaci di collegare fra loro l’alto medioevo alle età a noi più prossime. A tali testimonianze architettoniche come poi non far seguire un altrettanto doveroso riferimento a Tufara, con la vicenda legata alla straordinaria figura dell’eremita Giovanni in grado, con la sua opera spirituale e civile, di dare lustro al territorio prospiciente fin dagli albori del Mille? L’elenco dei siti religiosi potrebbe ulteriormente continuare se solo, ad esempio, ci si spostasse alle non distanti località di Riccia e di Cercemaggiore, in cui ugualmente la devozione mariana ha permesso che si generassero, da un lato, la ben nota devozione nei riguardi della Vergine del Carmine o del Carmelo e, dall’altro, la stupenda struttura del santuario della Madonna della Libera che, grazie in particolare al servizio lì prestato per diversi decenni dalla comunità domenicani, ha assunto un ruolo ugualmente di primo piano nella crescita umana e spirituale anche della zona prospiciente al Sannio beneventano. Come si può constatare anche solo da questi brevi spunti di riflessione, sarebbe davvero ingeneroso lasciare che un simile tesoro di memorie e di tradizioni andasse miseramente perduto a causa dell’incuria degli uomini del nostro tempo, troppo inclini a dimenticare i tanti benefici ricevuti nel passato dalle tante comunità che si sono susseguite all’interno di questi luoghi, ritenendo – erroneamente – che il progresso scientifico, tecnologico e mediatico che in qualche modo ci sta attanagliando, basti non solo a farci perdere la memoria del passato ma, ancora di più, a farci percepire l’idea che si possa finanche fare a meno della bellezza e, con essa, della fonte prima della sua origine.