La quaresima viene spesso definita come un “tempo favorevole”, ovvero come un’opportunità felice per far compiere un salto di qualità alla vita del cristiano, aiutandolo a ricentrarsi sull’evento più importante e decisivo per tutti e per ciascuno: la Pasqua del Signore. Nell’evento pasquale, ovvero nella morte e risurrezione del Signore Gesù, si è manifestato, nel modo più profondo e compiuto, tutto il mistero dell’amore di Dio. Verso questo amore siamo chiamati, sempre di nuovo, a orientare la mente e a dirigere il cuore per ritrovare il significato della nostra esistenza.
Ricentrarsi sulla Pasqua vuol dire, innanzitutto, corrispondere all’amore di Dio, che ci ha amati per primo. Corrispondere all’amore divino significa innanzitutto impegnarsi a riamare Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte forze, ma significa anche impegnarsi ad amare il nostro prossimo come noi stessi, il che presuppone altresì (come logica necessità) l’impegno serio e sincero ad amare se stessi davvero.
In questa breve riflessione vorrei proporre una rivisitazione delle tradizionali tre “buone pratiche” quaresimali: la preghiera, l’elemosina e il digiuno, interpretabili, rispettivamente, come esercizio dell’amore verso Dio, verso il prossimo e verso se stessi.
La pratica della preghiera può essere, in questo senso, intesa come opportunità per fare memoria dell’amore Dio (con la mente) e per disporre l’affetto e la volontà (il cuore e le forze), a corrispondere a quest’amore, per quanto ci è possibile e con l’umile coscienza della nostra inadeguatezza. Una simile preghiera dovrebbe essere, in primo luogo, atto di ascolto della parola di Dio; in secondo luogo, esercizio della memoria circa i benefici concretamente da Dio ricevuti; in terzo luogo, espressione di ringraziamento e di lode, che non trascuri, tuttavia, la disposizione, umile e pienamente fondata nell’insegnamento del vangelo (Lc 11,5-13), alla preghiera di domanda, fiduciosa e insistente. Anche chiedere può essere espressione di amore. La preghiera del fariseo della nota parabola (Lc. 18, 9-14), in effetti, suona come puro (sebbene inautentico) esercizio di gratitudine (“O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini…”), quella del pubblicano, invece, solo come nuda richiesta (“O Dio, abbi pietà di me peccatore…”).
Comunque, ogni parola, sia di lode, sia di ringraziamento, sia di richiesta, che rivolgiamo a Dio nella preghiera, dovrebbe dare la precedenza (sia temporalmente che assiologicamente) all’ascolto della parola di Dio. Dare più spazio all’ascolto della Parola, memorizzandone, magari, alcuni versetti per noi significativi, ci dispone, oltretutto, ad affrontare meglio i momenti crisi e a contrastare efficacemente i pensieri negativi, come ci testimonia lo stesso Gesù nel vangelo delle tentazioni (Mt 4, 1-11), quando mette a tacere il diavolo, per tre volte, citando il Deuteronomio.
L’elemosina (ovvero l’impegno ad aiutare concretamente il prossimo nel bisogno) è la pratica che ci ricorda che, per corrispondere all’amore di Dio, è necessario prendersi concretamente cura dei nostri simili (cf. 1Gv 4,19-21; Gc 2, 14-16). Essa è normalmente intesa come disponibilità ad elargire un aiuto economico a chi viva situazioni di disagio. Senza, ovviamente, negare questa forma di carità (sempre e più che mai necessaria), nel contesto sociale attuale, fortemente caratterizzato da rapporti umani in gran parte digitalmente mediati e tendenzialmente spersonalizzanti, potrebbe tuttavia essere opportuno impegnarsi anche a dedicare più tempo all’ascolto dell’altro, guardandolo in volto e con il desiderio di comprenderne i veri bisogni, per offrire un vero aiuto. Si tratterebbe, insomma, di impegnarsi ad ascoltare veramente l’altro, distogliendo l’attenzione dall’ascolto narcisistico di se stessi. Un maggiore impegno a confrontarsi col volto dell’altro potrebbe iniziare proprio (senza ovviamente limitarsi a loro, cf. Lc 10,25-37) dalle persone più vicine a noi (familiari, colleghi, vicini…), la cui prossimità, paradossalmente, può rendere talora meno facile la percezione dei bisogni inespressi e delle sofferenze nascoste.
Per concludere, possiamo considerare il digiuno (la pratica, fra le tre, forse più connotabile come quaresimale) come la pratica orientata in modo più specifico all’autentico amore di sé. Nel suo significato più tradizionale e diffuso il digiuno è inteso, normalmente, come temporanea rinuncia al cibo, atta a contrastare il vizio della gola. In questa rivisitazione, propongo tuttavia di intendere il digiuno, per analogia e in senso allargato, anche come impegno a sapersi dire dei “no”, non solo nel rapporto col cibo, per imparare a volersi più bene. Sì, dobbiamo imparare ad amarci in modo più vero esercitandoci a dire “no” a noi stessi, soprattutto in quegli ambiti esistenziali nei quali maggiormente si sperimenta una qualche forma di dipendenza e, quindi, un depotenziamento della libertà e, fatalmente, delle forze morali. La dipendenza dal cibo, con i connessi e ben noti disturbi alimentari, può certo costituire un limite per la libertà, da cui affrancarsi. Ma che dire allora delle varie, e talora particolarmente devastanti, dipendenze collegate all’utilizzo di internet, talvolta patologiche (IAD), spesso decisamente viziose, sempre molto pericolose soprattutto per i bambini e gli adolescenti. Non sarebbe allora opportuno promuovere forme di digiuno proprio in quest’ambito, illustrandone i vantaggi? Non certo solo in Quaresima. Ma la Quaresima potrebbe essere l’occasione per cominciare un’esperienza di libertà di cui far tesoro. Nel mondo di oggi non è possibile rinunciare all’uso di internet, ma è invece possibile e, direi, necessario limitare l’uso perché non diventi abuso. Si tratta appunto, in una sorta di digiuno per analogia, di provare con determinazione a dirsi dei “no”, con la consapevolezza che ne vale davvero la pena. La dipendenza, infatti, conduce inesorabilmente all’infelicità perché produce la morte dell’autostima per compensarla con l’effetto effimero delle endorfine.
Ci sono evidentemente anche altre dipendenze oltre a quelle legate all’abuso di internet, e ognuno dovrebbe esaminarsi e cominciare a contrastare i “suoi vizi” con “terapie di digiuno” specifiche. Ma ho posto l’enfasi sui rischi della Rete perché questa sta diventando una realtà sempre più invasiva e totalizzante, nell’indifferenza o nella rassegnazione pressoché generale.
La Quaresima, dunque, potrebbe essere l’occasione per diventare più liberi da tante dipendenze che ci condizionano negativamente. Inoltre, sì, potrebbe essere di conseguenza «il momento per imparare a usare meglio» il tempo, «un bene che oggi è prezioso quanto il cibo».
Queste considerazioni non devono però condurci in alcun modo a perdere di vista l’importanza del digiuno dai pasti come è stato concepito dalla tradizione della Chiesa e che viene richiesto ai cristiani in particolare in occasione del mercoledì delle ceneri e del venerdì santo.
A questo proposito vorrei proporre alcune considerazioni a partire dal noto passo del Vangelo di Matteo dedicato al digiuno: «Allora gli si avvicinarono i discepoli di Giovanni e gli dissero: “Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?”. E Gesù disse loro: “Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno”» (Mt 9,14-15).
In questo brano emerge che il digiuno cristiano ha significato come segno di una mancanza e quindi di un desiderio. Il bisogno di fare digiuno è il segno della mancanza dello Sposo.
I discepoli hanno fatto drammaticamente l’esperienza di questa mancanza quando Gesù è stato arrestato e ucciso sulla croce. Il digiuno cristiano è innanzitutto memoria di questo.
Certo, dopo la risurrezione egli ha detto loro «io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Ma egli è presente e assente al contempo. Proprio quando i discepoli di Emmaus riconoscono Gesù mentre spezza il pane egli sparisce dalla loro vista (cf. Lc 24,31).
Anche noi, come i discepoli dopo l’Ascensione, abbiamo la compagnia del Signore. Pur non potendo godere della sua presenza fisica, abbiamo la sua parola, abbiamo l’eucaristia che è la sua presenza reale, abbiamo lo Spirito Santo. Tutte queste realtà sono ci permettono di stare uniti al Signore, ma, come ci insegna ineluttabilmente l’esperienza, non ci impediscono, talora, di sentirci lontani o di rimanere lontani da lui. La felicità umana perfetta sarà vedere il Signore faccia a faccia, ma finché viviamo su questa terra lo percepiamo soltanto in maniera velata. Il digiuno allora è distaccarsi dalle cose per ricordare e desiderare il Signore più intensamente. In questo desiderio intenso c’è già un’anticipazione reale dell’incontro con lui. Questo forse è il significato profondo del digiuno in preparazione alla comunione che, a mio avviso, andrebbe riscoperto.
Questo aspetto del digiuno cristiano lo chiamerei “digiuno come preghiera”. Esso mira a produrre nella persona un vuoto che l’aiuti a percepire la nostalgia del Signore e la disponga a lasciarsi riempire da lui.
Un altro aspetto che la tradizione cristiana ha sempre considerato è quello del digiuno come carità verso il prossimo: il sapersi privare di qualcosa di nostro per essere concretamente solidali con chi è nel bisogno. Anche questo per il cristiano è un modo per cercare e per ritrovare il Signore. Infatti, come sappiamo, il Signore si è identificato con i poveri (Cf. Mt 25,31-46).
C’è ancora un altro aspetto, collegato ai precedenti, ed è quello del digiuno come penitenza, cioè come memoria della morte del Signore per i nostri peccati e come volontaria presa di distanza dal peccato attraverso la temporanea rinuncia a un bene essenziale qual è il cibo. Il peccato in effetti ci separa dal Signore; ci toglie lo Sposo. Se spesso sentiamo il Signore tanto lontano, nonostante che egli abbia promesso di essere sempre con noi, è perché forse ci siamo allontanati da lui. Se è vero che la felicità perfetta non esiste su questa terra è vero però anche che il peccato esaspera la nostra infelicità. In fondo il peccato è la ricerca disperata della felicità là dove non la si può trovare.
Rinunciare temporaneamente alla gioia del cibo, che è un bene fondamentale, ci aiuta a considerare la fondamentale ambiguità di ogni bene materiale e a ricordare che solo nel Signore possiamo trovare la felicità vera e definitiva: «non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4; cf. Dt 8,3).
Gianni Cioli