Life in plastic: i mari che soffocano

di Marianna Meffe

Life in plastic, it’s fantastic” cantava Aqua negli anni novanta.

Probabilmente oggi il milione e mezzo di animali marini che ogni anno muore per intossicazione o soffocamento da ingestione di plastica non sarebbe d’accordo.

I più prolifici serial killer dei mari sono infatti proprio sacchetti e imballaggi di plastica, i più classici degli usa e getta.

Se per tanto tempo è stata un alleato nella conquista della modernità e di una vita più “democratica”, con la nascita della società del consumo la plastica è diventata il materiale più mainstream di tutti.

 Sfruttata per la genesi di un massiccio usa e getta di dubbio gusto e di dubbia utilità, al giorno d’oggi quello che resta della plastica è più che altro un’idea negativa, l’idea di negozi pieni di gadget e fronzoli plasticosi, di imballaggi assurdi, di protezioni inutili. Non è raro per esempio vedere al supermercato delle banane (!) avvolte a più riprese dalla plastica: verrebbe da chiedersi perché la natura le abbia dotate di una buccia…

Tuttavia, è importante capire che non è la plastica in sè il problema, visto che gran parte del progresso scientifico sarebbe stato impossibile senza questo incredibilmente versatile materiale.

Il problema della plastica è che, dati i suoi lunghissimi tempi di decomposizione, essa resta in circolo per migliaia di anni. Non essendo propriamente biodegradabile, si limita a scindersi in microparticelle per fotodegradazione: i raggi UV alterano i polimeri della plastica, rilasciando molecole organiche a catena più corta (le microplastiche, appunto).

In mare aperto, le conseguenze di questo fenomeno sono però letali, a scala temporale molto ridotta: difatti, a questo punto, quando non è più ben riconoscibile come tale, il frammento di plastica riesce a ingannare gli occhi di balene, tartarughe e pesci, che lo scambiano per cibo. I fortunati che non muoiono per intossicazioni o ferite interne (o soffocamenti nel caso di rifiuti più grandi, come cannucce o tappi) finiscono nelle nostre reti: e da lì, la plastica fa il suo ingresso nella catena alimentare.

Si stima infatti che delle 300 milioni di tonnellate (MT) di plastica prodotta annualmente, dalle 5 alle 13 MT siano ocean-bound, ossia destinate a finire, prima o poi, nelle acque. E, con buona probabilità, nei nostri piatti.

Uno degli accumuli di rifiuti più estesi che possiamo trovare in mare aperto è la Great Pacific Garbage Patch: se siamo abituati a pensarla come un’isola compatta, essa è in realtà formata da tante chiazze (patch) interconnesse, per lo più composte di microplastiche, dove galleggiano rifiuti maggiori, come reti da pesca o scarpe.

Scoperta nel 1997 dal velista Charles Moore, la “Chiazza” si estende tra la California e le Hawaii, in pieno Oceano Pacifico; qui, la corrente prevalente, il Vortice subtropicale del Nord Pacifico, è dotata di un particolare movimento a spirale, che permette la creazione, al centro, di una zona di relativa calma: quindi, i rifiuti catturati dalla corrente lungo le coste vengono convogliati in questa zona stazionaria, dove cominciano ad accumularsi.

Ora, il punto di tutto ciò è capire fino a livello è possibile ripulire interamente gli oceani: abbiamo già parlato delle soluzioni intelligenti e avveniristiche come quella di Boyan Slat e del suo Interceptor, ma è ovvio che la volontà di pochi illuminati non può fronteggiare da sola un problema di tale portata.

Anche discariche controllate (dove esistono!) e abitudine al riciclo sono spesso dei palliativi; pur nella loro importanza, non fanno altro che rimandare il problema: il riciclo, ad esempio, diventa spesso ambientalismo di facciata. Recente è l’annuncio della Mattel con l’impegno a costruire nuove bambole solo con plastica altrimenti destinata a finire in mare: intento lodevole, peccato che anche le bambole siano un bene di consumo per loro natura finito, destinato ad essere prima o poi gettato via.

Come si intuisce, il problema non è di semplice soluzione e se si ragiona a lungo termine, oltre a pensare ad una ripulita totale degli oceani, bisogna anche concentrarsi per evitare di peggiorare il problema: in una parola, tagliare. Tagliare via la plastica non necessaria, ridurre il consumo di usa e getta: serve un grande sforzo immaginativo per intuire il lungo viaggio che la nostra innocente bottiglietta d’acqua compirà dopo che l’avremo gettata. Ma uno sforzo mentale oggi potrebbe evitarci un duro sforzo fisico ed economico domani.

Perché nel Barbie world dove gli oceani e i suoi abitanti stanno soffocando, a sopravvivere saranno solo le Barbie girls. Abbandonate su un mondo deserto dove non c’è più nessun bambino a giocare.