La sindacabilità dell’autonomia differenziata

Sul controverso tema dell’autonomia differenziata delle Regioni, abbiamo sentito l’avv. Franco Mancini, esperto tributarista, autore di pubblicazioni in materia di federalismo fiscale e di IVA dei Comuni, attuale Presidente del Collegio Sindacale di Cassa Forense, il cui Bilancio 2022, approvato all’unanimità nei giorni scorsi, si è chiuso con un avanzo di oltre 1 miliardo di euro ed un patrimonio di oltre 16,2 miliardi di euro

Dai Candidati Presidenti alla Regione, partirà, a breve, un profluvio di promesse e di programmi su che cosa fare del nostro Molise.

Fra le tradizionali (e logore) ricette che saranno dispensate per attirare l’attenzione ed il consenso degli elettori, un argomento – non a caso tra i più sottaciuti – meriterebbe risposte dirette, chiare e coraggiose: come si atteggeranno il nuovo Governatore e la sua maggioranza di fronte al disegno di legge Calderoli, che prevede l’attuazione del c.d. regionalismo differenziato o asimmetrico, in quanto consente ad alcune Regioni di dotarsi di poteri diversi dalle altre.

In forza degli articoli 116 e 117 della Costituzione, sono ben 23 le materie per le quali le Regioni potranno rivendicare una maggiore indipendenza finanziaria. Si paventa una sorta di ingordigia delle funzioni, da parte delle Regioni più autonomiste.

Premettiamo che l’argomento andrebbe disboscato dalle sue schematizzazioni e schermaglie ideologiche, tenuto conto che l’accelerazione che il Governo di Centro-destra sta imprimendo al processo è comunque figlia della risalente (2001) riforma del Titolo V della Costituzione e delle intese raggiunte, prima dal Governo Gentiloni e, poi, dai Governi Conte 1 e Conte 2, con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, promotrici di iniziative volte ad ottenere copiosi trasferimenti di nuove competenze.

Il disegno di legge condiziona l’attribuzione delle funzioni alla determinazione dei LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni), cugini dei chiacchierati LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), che, in materia sanitaria, hanno aperto squarci, mai chiusi, di contrasto costituzionale fra Stato e Regioni (basti pensare che solo 10 riescono a soddisfarli).

Dei LEP dovrà occuparsi una Cabina di Regia, composta dalla Presidenza del Consiglio, da Ministri e rappresentanti di Regioni ed Enti Locali.

E qui viene il bello: se il riferimento sarà, ancora, quello della spesa storica, il divario fra Nord e Sud continuerà ad accentuarsi (la spesa pubblica pro-capite oscilla, ora, tra i 19 mila euro della Lombardia ed i 13.700 della Calabria). 

Eppure, i livelli essenziali costituiscono “la misura economica dell’eguaglianza” (F. Saitto), la soglia dei diritti indisponibile ad ogni forma di differenziazione territoriale. 

L’identificazione dei livelli essenziali è un’operazione di alta chirurgia istituzionale: anzitutto, indica il grado di tutela che si traduce in prestazioni esigibili ed azionabili davanti al giudice; in secondo luogo, fornisce il parametro del finanziamento delle prestazioni che lo Stato deve assicurare anche nelle fasi avverse del ciclo economico (G. Rivosecchi).

La regola aurea consolidatasi nel tempo è che i costi ed i fabbisogni standard delle prestazioni sanitarie, sociali ed assistenziali, in mancanza di parametri oggettivi, siano negoziati secondo principi di “leale collaborazione” fra Stato e Regioni, in Conferenza. Come dire: raccomandare le pecore al lupo, perché le regioni più forti e con decibel più alti hanno maggiore agio di far sentire la propria voce e reclamare spazi più larghi.

Non solo: se la maggiore autonomia di alcune regioni dovrà essere garantita, in sede di intese, da compartecipazioni più robuste ai tributi erariali (Irap, Iva, ecc.), non si potrà prescindere da una soglia massima, pena l’ulteriore emarginazione dei territori più deboli.

Se la copertura dei livelli essenziali delle prestazioni dovrà essere assicurata in tutta la nazione, come giustamente vuole la Carta Costituzionale, lo Stato sarà costretto, ancora una volta, a ridurre la spesa pubblica, incrementare le imposte od il debito.

E dunque, il virtuale beneficio del federalismo fiscale sarà neutralizzato, anche per le regioni più ricche, dalla tassazione generale o dal peso degli interessi passivi, soprattutto a futura memoria delle nuove generazioni. 

Insomma, la coperta è sempre troppo corta e, se non si vuole andare controvento e sventolare bandiere destinate ad ammainare, occorrerà ricordare che la politica è l’arte del possibile.

Nei tavoli tecnici, nella Cabina di Regia, nelle Commissioni, che saranno chiamati a ricucire gli strappi dovuti alla differente “capacità fiscale” delle singole Regioni ed a coniugare solidarietà, sussidiarietà ed equilibri di bilancio, ci si dovrà sedere in giacca e cravatta, ma, sotto, con tanto pelo sullo stomaco.

Devono essere i diritti a condizionare le voci di bilancio, e non i bilanci a dettare l’agenda dei diritti.

La Magistratura amministrativa ha però più volte stabilito che perfino il diritto alla salute non è un diritto assoluto, ma va bilanciato con altri principi di rango costituzionale.

I piani di rientro dai disavanzi sanitari sono il precipitato di questi orientamenti ed hanno determinato, ben oltre il condivisibile obiettivo della razionalizzazione delle spese, che lo Stato richiami i vincoli alla spesa e si dolga dell’uso irresponsabile, da parte regionale, delle risorse trasferite, salvo poi – come annota acutamente Beniamino Dedda, già P.G. della Repubblica di Firenze – “intervenire, come di frequente accaduto, utilizzando la stessa leva finanziaria per ripianare i debiti degli enti in deficit”.    

Prendiamo il caso dei Comuni molisani: le ultime rilevazioni ci dicono che solo due, quello di San Massimo, guidato dal Sindaco Alfonso Leggieri, e quello di Campomarino, che ha per primo cittadino Piero Donato Silvestri, godono di una piena autonomia finanziaria.

Certo, sono Comuni a vocazione turistica, ove le “seconde case” danno ossigeno alle casse locali e le potenzialità di indotto contengono quei flussi migratori che, invece, in altri Paesi molisani, sono la piaga di un declino demografico e sociale.

Ma i numeri positivi di queste due realtà virtuose raccontano anche altro: ad esempio, l’efficienza e la rapidità dell’attività di riscossione delle entrate, tributarie e non; la capacità di intercettare fondi nazionali e comunitari; la compartecipazione ai finanziamenti di opere infrastrutturali; la sapiente messa a reddito di beni patrimoniali.

Paradossalmente, a legislazione vigente, proprio la loro efficacia gestionale li espone ai prelievi coatti in favore della perequazione sovraregionale.

Altri Comuni non vantano uguali prerogative di posizione, ma questo è il dato statico.

Le dinamiche di una sana gestione e di un’illuminata visione possono portare anche altre Amministrazioni a promuovere, sull’onda del nuovo appeal del marchio Molise, lo sviluppo del turismo dei Borghi, ambientale, socio-culturale e gastronomico e, dunque, attrarre residenzialità e nuovi insediamenti commerciali, agricoli ed artigianali. 

Abbandonando il retaggio di logiche questuanti, gli enti locali del Molise potranno partecipare pro-attivamente a questo (pur impervio) percorso di rimodulazione del rapporto tra finanza derivata e finanza autonoma, con il necessario grado di consapevolezza, di competenza e, soprattutto, di dignità, spingendo per il rispetto dei diritti fondamentali ed inalienabili delle loro comunità, ma offrendo, al contempo, proposte e progetti meritevoli di sostegno e di finanziamento.

In definitiva, il Molise, attraverso tutte le sue espressioni istituzionali, ha il diritto e l’onere di provare, con tutti gli strumenti adeguati, di avere fatto bene i compiti a casa e, laddove ne ricorrano le condizioni, l’assoluta ed oggettiva impossibilità di svolgere le funzioni ad esso assegnate dalla Costituzione.  

                                                                        Franco Mancini