di Sergio Genovese
Un po’ di tempo fa cercai di mettere in risalto con spirito tollerante, la tendenza dei nostri cronisti sportivi, alcuni abbondantemente svezzati altri davvero alle primissime armi, di svolgere la funzione senza mai uscire dal loro ruolo di tifosi. Nelle rubriche oceaniche e ridondanti, l’arbitro di gara, osservato speciale sempre dall’occhio sbagliato, veniva definito, tout court, di parte e corresponsabile delle sconfitte o delle delusioni della squadra amata. Un giorno mi è capitato di sentire una considerazione che faceva a pugni con i principi dell’etica sportiva. Si raccontava: “Quando la squadra perde i calciatori devono evitare di andare a salutare il pubblico anzi la curva deve ricacciarli indietro e allontanarli”. Evidentemente quel giornalista sarà stato abituato nella vita a vincere sempre senza conoscere mai la china della sconfitta. Al di là delle libere interpretazioni che ognuno si vuole costruire persino proteggendole, rimane l’assunto, netto ed inderogabile, della responsabilità che ognuno deve sentirsi addosso quando proferisce pensieri ed opinioni. Le cose di casa nostra mi son servite solo per utilizzare la sponda e riportare al lettore, fedelmente, un momento vissuto in un pomeriggio del talk di Serena Bortone alle prese con una intervista a Francesco Facchinetti. Quest’ultimo in un passaggio del suo raccontarsi faceva intuire che la sua gioventù non era rimasta a margine dalla droga. Dopo aver parlato di chimica che attraeva, senza mezzi termini, chiosava che già dagli anni novanta, la roba la trovavi da tutte le parti, quasi come oggi che è un disastro. Con una stura cosi ben servita e ben preparata, la giornalista, in coerenza con la sua funzione pubblica, civica e sociale, dell’argomento, pur nei tempi ristretti a disposizione, doveva favorirne una integrazione. Aveva ricevuto la palla in balzo su un soffice manto erboso! Con un bizzarro sorriso in parte abortito, la Bortone, lasciava cadere l’assist ritornando alla leggerezza e alla banalità delle domande che si frullavano. Un altro autentico esempio che del fenomeno agghiacciante che ha imprigionato i nostri ragazzi tutti preferiscono non parlarne. Una parola in più, una preoccupazione amplificata, sarebbe stata la logica conseguenza di chi si aspetta dai conduttori dei nostri salotti a schermo piatto, anche la denuncia ed il coinvolgimento sui tormenti che segnano il tempo dei nostri giorni. Meglio deviare dalla droga. E’ stato più giusto chiedere a Facchinetti, imboccando una curva a gomito, quanti amori aveva avuto. Il mondo va così anche nell’etere. Meglio non toccare certi tasti. Meglio non irritare qualche dirigente potente che teoricamente rappresenterebbe il servizio pubblico. Anche nella stampa c’è il meglio ed il peggio. Abbiamo giornalisti che dovranno essere scortati a vita per le inchieste sulla mafia che hanno condotto e quelli che placidi rinunceranno anche al minimo coinvolgimento per non urtare la suscettibilità di quelli che decidono i rinnovi contrattuali. E se non fosse così essere privi di qualsiasi vis civica sarebbe comunque una colpa. Grave!