GIUSEPPE CAROZZA
Come già evidenziato in un precedente contributo di qualche mese fa, è in pieno svolgimento
l’anno centenario della morte di Dante ed anche nel nostro territorio, dove più dove meno, grazie anche ad
una situazione sanitaria in apparenza più clemente, si assiste ad un discreto fiorire di discorsi
commemorativi, rievocazioni, resoconti di ardenti passioni per la Commedia, da parte di personaggi a volte
serissimi e credibili, a volte piuttosto improbabili; molto spesso, poi, viene ripresentata l’immagine
tradizionale del padre della nostra letteratura, con il classico cappuccio in testa da cui emerge il gran naso
grifagno e maestoso. Ma va bene: è un’ottima cosa, pensavo qualche giorno fa, se tutto questo avrà la
buona conseguenza di diffondere un po’ di autentico interesse per lui e per la sua gigantesca forza poetica.
Tuttavia non mi faccio eccessive illusioni al riguardo. In primo luogo, Dante occorre affrontarlo con
pazienza, accettando di farsi sorprendere dove e quando lui vuole. È un pignolissimo, divertito arredatore
degli spazi dei tre regni oltremondani, dove colloca un gran numero di personaggi, su sfondi descritti
sempre con certosina sapienza; ma è anche creatore di linguaggi, di situazioni e di immagini “eroiche”, che
si depositano nella memoria con una forza a volte quasi selvaggia, che lui per primo di certo faticò a
controllare. Ma il nostro fiorentino, come tutti sanno, non era solo uno studioso: amava ed era amato, era
dominato da passione politica, combatté in prima persona, si impegnò nel governo della sua città, fu
esiliato e maledetto. Nell’ultima parte della sua vita poi, mentre andava ramingo cercando protezione
presso le potenti casate dell’Italia settentrionale, quale ferrea disciplina si deve essere imposto per
inventarsi, tenere sotto controllo e organizzare minuziosamente l’immensa impalcatura della Commedia? In
soli cinquantasei anni di vita…
Il mio personale approccio al sommo poeta fu per mia buona sorte molto fortunato: partì da un
incontro diretto. Ero in quarta ginnasio. Un giorno presi tra le mani l’antologia liceale di una mia amica, la
aprii a caso e lessi l’inizio di una poesia: <<Deh, Violetta, che in ombra d’Amore / negli occhi miei sì subito
apparisti, / aggi pietà del cor che tu feristi, / che spera in te e desiando muore …>>. Questa era la prima
strofa, e mi piacque moltissimo. Capii poco delle successive, ma mi feci trascinare dal loro ritmo e mi si
impressero in mente ancora due versi: << foco mettesti dentro in la mia mente>> e <<drizza gli occhi al
gran disio che m’arde>>. Improvvisamente, sentii come una musica che mi entrava nel cuore. L’eco che mi
risuonava dentro era troppo forte, e mi invadeva tutto: quella della canzone era una donna a cui venivano
rivolte parole d’amore da un giovane come lei, ma speciale, che aveva in sé il fuoco della poesia e la magia
delle parole, pieno della forza della giovinezza e capace di esprimerla. Il suo nome, scoprii, era Dante
Alighieri, proprio quel noioso poeta che aveva descritto l’Inferno, di cui un simpaticissimo bidello della mia
scuola, zio Domenico, non so come ma sta di fatto che conosceva a memoria i primi tredici canti, che ogni
tanto cominciava a recitare con voce quasi ispirata. Ma adesso la situazione era diversa. Mi pareva che
quelle parole fossero rivolte proprio a me, sussurrate alle mie orecchie, che in quei versi così limpidi e chiari
si rispecchiassero tutti i tumultuosi sentimenti che mi si agitavano dentro, il sorriso dei ragazzi e la
misteriosa realtà sconosciuta che aveva nome amore. Sentivo insomma il corpo e l’anima, la mente e il
cuore aggrovigliati insieme dalla sensuale innocenza del ritmo del verso endecasillabo. E vidi Dante come
una persona viva e appassionata, un giovane fiorentino dal carattere forte, ma anche sorridente e pieno di
amici, insieme ai quali combinava – perché no – scherzi o corteggiava ragazze; e di qualcuna si era
innamorato profondamente.
E fu da allora che ebbi per lui un amore speciale e segreto. Leggevo le sue rime nella mia antologia
con la confidenza propria di un amico, distante nei secoli ma vicino nel cuore. Non lo raccontavo a nessuno,
temendo in qualche modo di sentirmi troppo ridicolo; ma un po’ alla volta mi parve di aver capito bene
l’importanza che aveva avuto per lui quella speciale forma di amore che è l’amicizia, specialmente se rivolta
all’invenzione e alla scoperta di sé attraverso il fare cultura insieme. Sì, perché in fondo la conoscenza ed il
cammino che si percorre affinché, da ragazzi o da adulti, ne possiamo sperimentare anche solo un qualche
frammento, non dovrebbe mai essere considerata una sorta di conquista da portare a termine a scapito
degli altri ma, piuttosto, in comunione con gli altri. Oggi purtroppo, anche all’interno dei nostri ambienti
scolastici ed accademici, non di rado si assiste ad una “corsa” verso l’acquisizione del sapere che non
sempre risulta connaturata alle effettive capacità ed aspirazioni di ciascuno, ma appare piuttosto come una
corsa da portare a termine spesso anche in concorrenza con chi ci è vicino. Ebbene, sulle solidissime basi di
questa cultura condivisa, non rinnegando ma rinnovando l’antica, si forma, a nostro modesto parere, il
monumento immortale che è il poema grande di Dante, che auspichiamo possa, almeno in questi mesi,
essere al centro degli interessi non solo dei letterati, ma dell’intera comunità civile del Molise.