La Fede ha un cuore di carne

XXX Domenica del Tempo Ordinario (A)

Uno degli aspetti più rivoluzionari della dottrina di Gesù è stato senz’altro il suo aver sottolineato l’importanza dell’amore verso il prossimo come vera e propria forma di culto verso Dio, anzi probabilmente quella più gradita (cfr. Os 6,6) e decisiva per la salvezza (cfr. Mt 25,35-44); ciò in un contesto storico dove la dignità umana, specie quella dei più svantaggiati, era assai svalutata, anche da chi, in nome di Dio, avrebbe dovuto difenderla. Tuttavia se non conosciamo l’Amore con la preghiera, il culto e le Scritture (che svelano sia il volto di Dio che quello dell’uomo), come potremo mettere in pratica il più grande dei comandamenti? Così la risposta di Gesù al maestro della Torah, mette insieme in due frasi il cuore di tutta la storia della Rivelazione. Una sintesi tutt’oggi insuperata.

Mt 22,34-40

+In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». +

I farisei avversari di Gesù, che aveva ereditato la leadership del temuto movimento di riforma avviato dal precursore Giovanni Battista, non si mostravano affatto scrupolosi, in quanto a scelta di alleati. Infatti, proprio come gli erodiani, anche i sadducei erano avversari politici e teologici dei farisei, ma pur di far fronte a una comune minaccia, coloro che si spartiscono la torta del potere, non hanno remore nell’ignorare differenze e contrasti. “Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”: dopo gli attacchi che abbiamo visto nel versetti precendenti, i nemici di Gesù, decidono di far scendere in campo un loro “campione”, un vero dottore della Torah: autorità che aveva  grande autorevolezza nel giudicare l’ortodossia delle dottrine riguardanti le Scritture. La loro strategia è del tutto simile a quella adottata in “Mt 22, 16-17” (la famosa domanda sul tributo a Cesare), la quale aveva lo scopo di screditare Gesù agli occhi del popolo, costringendolo a contraddirsi. La domanda avanzata dal dottore era ancora più subdola di quella sul tributo. Il più importante dei comandamenti era senz’altro l’osservanza dello Shabbat, il riposo rituale del sabato nel quale il fedele, mettendo da parte tutti gli interessi profani e ponendo le attività sacre al primo posto, testimoniava l’amore che aveva nei confronti di Jahvè. Chiunque abbia un minimo di conoscenza dei Vangeli sa bene che una delle  principali accuse rivolte contro Gesù era quella della violazione del Sabato, giorno in cui Gesù non esitava a compiere guarigioni, ritenendo l’amore verso i sofferenti come una fondamentale forma di culto verso Dio e, proprio per questo, perfettamente compatibile con lo Shabbat (Ne troviamo testimonianza in: Mt 12,9-13; Mc 2,23ss; Mc 3,2ss; Lc 13,14-16; Lc 14,3-5; Gv 7,22-23; Gv 9,13-16). La risposta che gli avversari del Maestro aspettavano per poterlo accusare  era probabilmente: “Amare il prossimo”; in questo modo avrebbero potuto denunciare nella dottrina di Gesù uno sbilanciamento dell’attenzione verso l’uomo rispetto a quella dovuta  Dio, ovvero una sorta di “idolatria” della  filantropia fine a se stessa.

+Gli rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».+

Anche questa volta Gesù dribbla l’insidioso attacco rispondendo alla domanda del suo esaminatore. Egli cita direttamente lo Shemà (cfr. Dt 6), quella parte della Torah che il fedele doveva portare sempre con se e meditare notte e giorno; sempre quindi, e non solo il sabato: “Questi precetti che oggi ti dò, ti stiano fissi nel cuore;  li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai.  Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi  e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte” (Dt 6, 6-9).  L’amore per Dio  doveva essere totale, ecco perchè vengono indicate le tre dimensioni che costituiscono l’uomo : il cuore ( sentimenti/desiderio/passione, quindi anche il corpo); anima (la dimensione trascendente dell’uomo, lo spirito); la mente (la razionalità e l’intelligenza con cui amministriamo noi stessi, coloro che ci sono affidati e le cose che abbiamo). Tutto ciò voleva dire orizzontare la propria vita verso il sentiero indicato da Mosè investendo se stessi senza riserve! Molto più che l’osservanza del sabato. “Il secondo e simile al primo” potrebbe essere tradotto anche con “è familiare al primo” o meglio “appartiene al primo”, ovvero “l’amare il prossimo” è tutt’uno con lo Shemà, non può essere disgiunto. Questa conclusione non viene dal nulla, ma appartiene alla riflessione millenaria di Israele e dei suoi profeti: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (Os 6,6); “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo?” (Is 58, 6)”. Del resto lo stesso decalogo è diviso in due parti: i tre comadamenti che riguardano Dio e i sette relativi ai crimini da non commettere contro il prossimo; solo insieme sono completi. C’è poco da fare per il maestro della Torah: la sintesi di Gesù è così perfetta da metterlo a tacere. Anche san Paolo affermerà: “Chi ama il suo prossimo ha adempiuto alla Legge (cfr Rm 13, 8). Nella lettera di Giacomo troviamo scritto: “Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta” (cfr. Gc 2,14-26). Potremmo dire che attraverso le preghiera, il culto e le Scritture conosciamo e riceviamo Dio (che è Amore 1Gv 4,7), mentre nella carità viviamo ciò che abbiamo conosciuto e ricevuto.
Oggi assistiamo alla progressiva marginalizzazione del valore della solidarietà rispetto al narcisismo e “l’autolatria”. Essere poveri e svantaggiati diventa sempre più una colpa e sempre meno la conseguenza di un’ingiustizia  economica, politica e sociale. Anche nella fede il pericolo di un’eccessiva verticalizzazione del culto potrebbe portarci verso una “deriva farisaica” che decentralizza e strumentalizza la carità, facendone così una forma di proselitismo, il quale lungi dall’essere evangelizzazione e testimonianza gratuita, resta solo una forma di “reclutamento”.

Felice Domenica

Fra Umberto Panipucci