La Croce: da marchio di infamia a sigillo di gloria

XXII Domenica del Tempo Ordinario (A)

Commento a Mt 16,21-27

Israele è un popolo che non ha mai dimenticato le sue origini, tutt’altro che gloriose o divine; le sue radici infatti affondano in un’umanità umile, fatta di nomadi, emigrati in un Egitto, allora prospero, per essere, dopo alterne vicende, gradualmente schiavizzato. In questo humus gli ebrei sognano un Dio più giusto degli altri dei, capace di aver compassione degli ultimi, i diseredati, gli oppressi e gli indifesi. Sarà Mosè a rivelare che questo Dio  c’era eccome, e non sarebbe stato solo il più grande, ma l’unico e vero. Gesù predica proprio questo Dio, il quale, coerentemente con quello dei padri, continua a stare dalla parte dei suoi figli più bisognosi. Egli si incarna e percorre i sentieri affollati dall’umanità più ferita per far sentire la sua vicinanza a chi soffre, specie se solo ed emarginato. Nel suo viaggio terrestre egli non si limita ad osservare, non svolge un semplice sopralluogo, ma vive egli stesso tutte quelle sofferenze, fino ad arrivare a quelle più atroci, come l’umiliazione, l’insulto,il tradimento, un’ingiusta condanna, un orribile supplizio. Stavolta Dio non si limita a soccorrere l’oppresso, ma lo diventa egli stesso, per far comprendere ai suoi fratelli nell’umanità che la via della gloria e  della divinizzazione (segretamente desiderata fin dalle origini, cfr. Gn 3,1-7)  passa per la conformazione all’amore del Padre che ci ha donato il Figlio, nostro fratello, il quale non ha esitato a darci tutto, la vita stessa, persino lo Spirito che procede dal Padre. Tale realtà emerge dalla parola offertaci da questa liturgia domenicale, dov’è chiaro che Gesù vuole purificare una volta per tutte le aspettative dei suoi discepoli, così da elevarli dalla banalità mondana alla soavità della vera divinità.

+In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno.+

Dopo la professione di Pietro e il definitivo chiarimento sulla sua vera identità, Gesù compie il passo successivo nella rivelazione del suo Mistero: l’oblazione di sé come mite Agnello, profeta inascoltato e messia rifiutato. Non si tratta del semplice e stoico abbandono a un rito sacrificale, ma una morte guadagnata in una vera e propria battaglia, quella per la Verità e che lui ha scelto di combattere disarmato. Non per questo Egli sta annunziando una sconfitta, anzi: Gesù prefigura ai suoi discepoli una splendida vittoria: la resurrezione! Tale trionfo, manifestandosi inaspettatamente dopo la teatrale esecuzione del Cristo,  dimostra la completa impotenza dei suoi nemici rispetto all’inarrestabile progetto di Dio.

+Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».+

Dopo aver elogiato la grande fede di Pietro, Gesù non esita a mostrarne i punti deboli ed in modo impietoso. Ma cosa merita un monito così duro? Perché umiliare davanti a tutti colui che prima è stato esaltato? Lo spiega lo stesso Gesù: Simone, pur sapendo chi fosse davvero il suo maestro, rifiuta di accettare il progetto divino appena svelato, dimostra così di pensare ancora con le categorie umane: “…non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Egli non poteva sopportare lo scandalo della croce! Decisamente troppo anche per le prime generazioni di cristiani, tant’è che uno dei maggiori ostacoli alla diffusione della Fede è stata proprio l’umiliante morte a cui è stato condannato il Cristo, per cui si restava maledetti anche dopo essere spirati. Infatti la croce non annientava l’uomo solo fisicamente ma anche moralmente e spiritualmente in quanto, oltre a essere una disumana tortura, era una damnazio memorie, su questo il Deuteronomio si esprime chiaramente: “Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità”  (Dt 21, 22-23). Colui che era appeso al legno (Gal 3, 13) diventava una maledizione per la terra e chi vi abitava, non poteva dunque esserne anche il salvatore! Tutto questo sembra ovvio finche non ci si ricorda di un dettaglio: Cristo risorgendo ha distrutto la maledizione  che quella morte portava in se! Pietro non poteva ancora concepire tutto questo, eppure il Maestro stronca questo suo pensiero sul nascere, sopratutto in vista di quello che la sua mente e il suo cuore dovranno accettare in seguito. A questo proposito citiamo le parole di Trifone, un dotto rabbino, rivolte a San Giustino: “La legge infatti dice che chi è crocifisso è un maledetto, per cui su questo punto la mia refrattarietà raggiunge il culmine. Che le Scritture proclamino un Cristo sofferente, questo è chiaro, ma che lo dovesse essere di un supplizio maledetto dalla Legge, di questo vogliamo conoscere le prove, se le hai”.

+Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.+

Gesù usa ancora una volta l’efficace linguaggio dei paradossi, quello che genera un terremoto cognitivo e sconquassa gli impolverati archivi delle nostre convizioni. Prima di Cristo la croce non portava alcuna salvezza ne per se stessi ne per gli altri, ma solo una grande maledizione. Ora il Signore ci invita a non temere le maledizioni del mondo e a proclamare la Verità che fa ardere d’ira i potenti e procura la loro confusione; tutto il male che può scaturire dalle loro persecuzioni è impotente contro la benedizione preparata dal Signore  per i suoi testimoni. La Vita di Dio è Dono di sé: la si acquista imitandolo, l’alternativa è restare seme inesploso che non porta frutto (cfr Gv 12,24). Chi si dona fa germogliare il suo seme e mette a frutto ciò che il Battesimo ha ha piantato nel suo terreno esistenziale.

+Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?+

Gesù continua a parlare con Pietro che voleva “salvarlo” dall’orribile morte prospettata dalla sua profezia. “Guadagnare il mondo”, ovvero: diventarne il re, ciò che Pietro si aspettava, “non giova a nulla”: non realizza la missione del Cristo: morire per Risorgere e renderci partecipi della sua stessa vittoria.

+Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».+

A che serve preoccuparsi di acquistare potere e sicurezze nel mondo se la Venuta del Messia è vicina? Tuttavia, questa prossimità dell’incontro con l’eternità, non va intesa solo in prospettiva della Parusia (Il ritorno definitivo del Cristo). La vita è un battito di ciglia difronte all’eternità e l’incontro con Lui è relativamente vicino per ciascuno di noi; infatti, per quante decine di anni possano ancora mancare al fatidico giorno, il confronto con il nostro Giudice supremo è prossimo: anche la vita più lunga è una frazione infinitesimale rispetto all’Eterno. 

Felice Domenica.

Fra Umberto Panipucci