La chiesa e la piazza di Sant’Ignazio di Loyola a Roma

Il 31 luglio 1556 all’età di 65 anni moriva a Roma il basco Ignazio di Loyola che nel 1534, insieme ad altri studenti dell’università di Parigi, aveva fondato la “Compagnia di Gesù”.

Sotto la sua guida i gesuiti, i cui principali scopi erano la predicazione, l’istruzione e l’attività missionaria, si erano diffusi in tutto il mondo contribuendo in modo significativo anche allo sviluppo e alla diffusione dell’arte come strumento di evangelizzazione.

Nel 1550, a Roma, lo stesso Ignazio aveva posto la prima pietra della “Chiesa del Gesù” che, per la sua bellezza, divenne un modello replicato in ogni parte del mondo e nella quale è tutt’ora sepolto. 

A seguito della canonizzazione di Ignazio, disposta da papa Gregorio XV nel 1622, il cardinale Ludovico Ludovisi, nipote del papa e particolarmente devoto alla Compagnia di Gesù, cominciò ad adoperarsi per la costruzione, a Roma, di un’altra chiesa da dedicare proprio al santo gesuita.

I lavori ebbero inizio nel 1626 grazie ad una donazione di centomila scudi da parte dello stesso cardinale Ludovisi e si protrassero così a lungo che lo stesso prelato morì senza vedere la chiesa finita ma lasciando alla Compagnia una ulteriore importante donazione per il completamento. 

L’edificio fu costruito in Campo Marzio, al posto della cinquecentesca Chiesa dell’Annunziata e a ridosso del Collegio Romano, il grande complesso scolastico voluto dai gesuiti alla fine del Cinquecento dove studiarono i figli delle più importanti famiglie della città. 

Nel suo libro del 1672 dal titolo “Vite de’ pittori, scultori e architecti moderni”, lo storico dell’arte Giovanni Pietro Bellori racconta che i padri Gesuiti, dopo aver visto alcuni disegni dell’architetto Dominichino per la nuova Chiesa di Sant’Ignazio gli dissero “…che non si affaticasse; perché volevano seguitare la forma della loro Chiesa del Gesù, come la prima, e la più bella, che era servita di esempio e di modello all’altre chiese…”.

Effettivamente il Domenichino aveva eseguito quei disegni non per incarico conferitogli dalla Compagnia di Gesù ma su mandato del Cardinale Ludovisi in qualità di promotore e finanziatore della nuova chiesa. Questi, che voleva che il nuovo edificio “…per l’ampiezza e bellezza fosse inferiore a pochi”, oltre che il Domenichino aveva coinvolto nel progetto altri importanti architetti ma alla fine l’incarico fu dato al gesuita padre Orazio Grassi.

Come desiderava la Compagnia, questo architetto prese a modello la innovativa Chiesa del Gesù ideata dal Vignola nel secolo precedente, ma realizzò uno spazio liturgico sostanzialmente diverso in cui la dilatazione di alcuni elementi compositivi ne mutò la principale caratteristica, quella cioè, di essere una chiesa ad aula e cappelle dotata di una semplice, chiara e compatta organizzazione spaziale particolarmente adatta alla predicazione e alla liturgia riformata dal Concilio di Trento. 

L’interno della Chiesa di Sant’Ignazio – infatti – è caratterizzato da misure monumentali sia nel presbiterio che nella navata sui cui lati tre grandi arcate per parte segnalano l’ingresso alle imponenti cappelle laterali; queste, tra loro collegate da grandi e alti portali divengono, nel loro insieme, delle vere e proprie navate laterali e la grande aula centrale si incrocia con un transetto con bracci così lunghi da generare una tradizionale chiesa a croce latina con tre navate: un impianto spaziale armonico, nel suo complesso, ma qualitativamente diverso da quello unitario e più equilibrato concepito dal Vignola nella Chiesa del Gesù.

Planimetria d’insieme

Difatti il pregio principale della chiesa dedicata a Sant’Ignazio non sta nell’architettura ma nel capolavoro pittorico che il gesuita trentino Andrea Pozzo – artista di straordinaria importanza nel panorama della pittura tardo-barocca – ha realizzato all’interno della chiesa tra il 1694 e il 1697 valorizzandola e conformandola a quanto indicato da sant’Ignazio negli Esercizi Spirituali. Per il santo gesuita il rinnovamento interiore dei fedeli doveva essere originato dalla predicazione del vangelo supportata dalla bellezza espressa dall’arte: il capolavoro del Pozzo celebra la Gloria di Sant’Ignazio e l’attività missionaria svolta dalla Compagnia di Gesù, osservando pienamente il precetto del santo.                                                          

Questo artista, che era anche architetto e teorico dell’arte, nel suo trattato “Perspectiva pictorum et architectorum” (1693-1702) scrive che “l’inganno degli occhi, si può raggiungere solo attraverso una conoscenza e uno studio approfondito della tecnica della prospettiva”. Negli stessi anni in cui scrive il trattato progetta e costruisce nella volta della navata centrale di Sant’Ignazio una ingannevole, gigantesca macchina pittorica di circa 750 metri quadrati che trasforma lo spazio della chiesa rendendolo barocco.  

Particolari affresco della volta 

Attraverso una complicatissima prospettiva sfonda illusionisticamente il soffitto dell’edificio e innesta sulle finestre, sugli archi e sulle cornici della vera chiesa, la finta architettura di un’altra chiesa la cui volta è quella “celeste”: guardando il dipinto sembra che lo spazio esterno, immaginario, coincida con quello interno, reale, “congiungendo – scrive nel suo trattato – il finto col vero”.

Questa illusoria architettura è popolata da una moltitudine di figure che accovacciate sui cornicioni, affacciate dai porticati, sospese tra le nubi di un cielo altissimo, festeggiano Sant’Ignazio accolto in paradiso da Gesù. 

Al centro la luce mistica che si irradia dal Salvatore investe Ignazio e si riflette verso le quattro parti del mondo conosciute e verso i santi gesuiti che hanno evangelizzato terre lontane conducendo a Dio moltitudini di nuovi fedeli.

Nei due lati lunghi del dipinto, infatti, Pozzo rappresenta le Allegorie dei Quattro Continenti: l’America è un’indiana con gonnellino e corona di piume che siede su un puma; l’Europa è una regina a cavallo che regge il globo terrestre, l’Africa è una donna di pelle scura su un coccodrillo e l’Asia è pure una donna accompagnata da un cammello.

Come scrive lo stesso artista le quattro donne “investite di cotanto lume stanno in atto di rigettare i deformissimi Mostri o d’idolatria, o di eresia, o di altri vizi”, sconfitti dalla missione evangelizzatrice dei gesuiti 

La principale fonte d’ispirazione per l’artista è un versetto del Vangelo di Luca che, riportato sui lati corti dell’affresco, allude al fuoco ed alla luce; questi due elementi che si ritrovano in ogni parte del dipinto sottoforma di fiaccole e raggi rappresentano la Parola del Vangelo (il fuoco) e lo Spirito Santo (la luce).  

L’effetto illusionistico – che si apprezza maggiormente posizionandosi su un disco in marmo giallo posto nel pavimento dell’aula – è stupefacente, ma lo scopo di questa spettacolare costruzione pittorica non sta solo nello stupire l’osservatore-fedele ma anche nell’offrire, attraverso la sua bellezza, una visione esaltante della fede, che diviene il principale mezzo per passare dalla miseria terrena alla gioia del paradiso, come è stato per Ignazio.

Non si tratta quindi solo di una composizione ottica frutto di genialità tecnica e artistica, è anche e soprattutto il prodotto di una complessa visione teologica e spirituale. 

In questa grande chiesa seicentesca dove manca la cupola – quella “cupola celestiale” che piena di luce innalza il fedele verso il divino – lo slancio ascensionale è dato proprio da questo straordinario dipinto che trasfigura l’edificio chiesa rendendolo, come si voleva in quel tempo, un luogo intermedio, uno spazio ideale tra terra e Cielo. 

Interno della chiesa

Ma questo non è il solo capolavoro di pittura prospettica, “di sott’in su”, che Padre Pozzo ha realizzato in questa chiesa. Avanzando verso l’altare, un altro segno sul pavimento indica il punto di vista privilegiato per vedere al meglio una cupola che in realtà non c’è. Infatti al posto della cupola, c’è una tela circolare con diametro di 17 metri su cui nel 1685 – ancor prima dello straordinario affresco della volta – fu dipinta la rappresentazione prospettica di una cupola che era stata progettata ma, probabilmente per motivi economici, non realizzata. La cupola è riprodotta sulla tela non solo con ricchezza di particolari architettonici come colonne, cornici, finestrature e lanterna, ma anche con rappresentazioni pittoriche.

Spostandosi ulteriormente verso il presbiterio, quando l’impressione della presenza di una vera cupola svanisce ci si trova di fronte ad un’altra illusione prospettica:  nel rappresentare il santo che guarisce gli appestati, Andrea Pozzo disegna sulla superficie concava del catino absidale un’architettura virtuale che, con quattro colonne apparentemente dritte, si apre al cielo.

Una curiosità: sopra la tela circolare, al posto della cupola, nel 1852 l’astronomo gesuita padre Secchi fece costruire un osservatorio astronomico annesso al Collegio Romano; oggi l’osservatorio non è più in funzione ma di questa struttura è rimasta una parte accessibile da una scala con 250 gradini da cui si può ammirare uno splendido panorama. 

Facciata principale della chiesa

Anche la facciata della chiesa è ispirata a quella della vicina Chiesa del Gesù ma, date le maggiori dimensioni dell’interno, è più alta, larga e imponente di quella.

 Probabilmente opera dello scultore bolognese Alessandro Algardi, è interamente in travertino ed è divisa in due ordini. L’ordine inferiore, scandito da colonne e paraste binate, presenta tre portali d’ingresso sormontati da timpani curvilinei con festoni; i due portali laterali, tuttavia, non danno accesso all’aula centrale come nella Chiesa del Gesù ma si aprono in corrispondenza delle navate laterali riprendendo l’antica tradizione delle chiese a pianta basilicale.

L’ordine superiore, sempre scandito da colonne e paraste, presenta una finestra centrale che illumina la navata principale, due nicchie laterali vuote e, come nel “Gesù”, due grandi volute laterali. 

La facciata – caratterizzata da un severo classicismo che poco risente delle tendenze barocche del secolo – è coronata da un timpano sormontato da sei candelabri con al centro la croce. 

La costruzione della chiesa, iniziata nel 1626, si protrasse per molti anni tanto che l’edificio fu completato nella seconda metà del ‘600 e la cerimonia di consacrazione avvenne nel 1722. 

Subito dopo si presentò la necessità di dare sistemazione all’area antistante la maestosa facciata con il duplice scopo di anteporre un adeguato sagrato all’ingresso della chiesa e creare un legame tra il nuovo edificio e il contesto urbano. 

All’inizio del ‘700 di fronte alla facciata della chiesa vi erano tre piccole case che insieme alla all’attigua chiesa di San Macuto appartenevano all’arciconfraternita dei bergamaschi. Nel 1726, a seguito del trasferimento dei bergamaschi in Piazza Colonna, Benedetto XIII Orsini assegnò la chiesetta e le case ai gesuiti e questi, su impulso del papa, affidarono all’architetto napoletano Filippo Raguzzini l’incarico di progettare la nuova piazza da intitolarsi a Sant’Ignazio. 

Tra le intenzioni dei gesuiti c’era, oltre quella di realizzare un adeguato sagrato, anche quella di sostituire le piccole e vecchie costruzioni esistenti con nuove case da dare in affitto, per cui il problema che si presentava all’architetto non era semplice: realizzare, in poco spazio, una piazza il più possibile ampia, degna della massiccia facciata e costruire nuovi, capienti edifici per abitazione.

Il Raguzzini – che era stato chiamato a Roma da Benedetto XIII intorno al 1723, in concomitanza della sua elezione a pontefice – risolse in modo brillante questo problema immaginando, dinanzi alla chiesa, una dinamica scenografia teatrale. 

La piazza Sant’Ignazio

Difatti guardando la piazzetta dalle scale della chiesa si ha l’impressione di trovarsi davanti ad un palcoscenico dalle cui quinte potrebbero uscire i personaggi di una commedia e si percepisce chiaramente il movimento di una scena costruita per dilatare illusionisticamente lo spazio della piazza.

Quattro corpi di fabbrica (ma apparentemente di più) della stessa altezza e con lo stesso semplice apparato decorativo riescono a produrre – nonostante la loro forma stravagante e mossa caratterizzata da pareti concave, sporgenze e angoli smussati – un insolito spazio unitario e simmetrico: due edifici con prospetti identici posti ai lati della piazza fanno da quinta ad un terzo edificio di forma triangolare antistante la chiesa; a raccordare le facciate dei tre edifici e conferire maggiore profondità alla piazza, ci sono due rientranze di forma ellittica sul cui fondo si intravedono le facciate concave di analoghi fabbricati che fanno da cerniera.

Dalla parte opposta, verso la chiesa, la pari altezza tra i fabbricati e l’ordine inferiore della facciata del tempio crea una linea continua che mette in relazione le due diverse architetture e conclude in alto lo spazio della piazza facendo emergere solo l’ordine superiore della facciata che assume – grazie a questo sapiente artificio – un maggiore slancio verso l’alto.

Avvicinandosi alla piazza dalle intricate viuzze poste dietro gli edifici del Raguzzini, si prova un senso di curiosità che si trasforma in meraviglia quando inaspettatamente appare, di scorcio, l’imponente facciata della chiesa; poiché la disposizione dei palazzi impedisce che si possa averne una veduta frontale e integrale, chi la guarda si deve spostare e muovendosi, cambiando il punto di osservazione, alzando lo sguardo, interagisce con la statica architettura della facciata che acquisisce un dinamismo di riflesso in perfetta armonia con la scenografica piazza. 

Particolare facciata della chiesa ed edifici 

I giochi prospettici e illusionistici che caratterizzano l’interno della chiesa vengono dunque anticipati nel sagrato e l’effetto sorpresa – tipico della città barocca – dovuto all’inserimento di sontuosi monumenti in un contesto edilizio più modesto, viene valorizzato e disciplinato dal Raguzzini con il voluto contrasto di scala e di linguaggio tra l’insieme dei suoi edifici e la grandiosa facciata della chiesa di Sant’Ignazio.

L’organicità e l’unità architettonica delle costruzioni – inoltre – è tale da rendere la piazza una vera e propria “camera urbana” uno di quei luoghi che nel Rinascimento si cercava di codificare come modelli per una città ideale e di fatto questa inaspettata, intima piazza è una ampia stanza all’aperto dove gli edifici fanno da pareti e il cielo fa da tetto. 

L’opera del Raguzzini non fu accolta favorevolmente dai sui contemporanei ma finì per influenzare profondamente l’architettura e l’edilizia settecentesca romana. Il linguaggio sobrio impiegato dall’architetto napoletano negli edifici della piazza lo si ritrova in molti palazzi settecenteschi della città che – con le sottili fasce marcapiani e i deliziosi balconcini con ringhiere dritte o panciute – riprendono, nelle facciate, l’elegante semplicità inaugurata dal Raguzzini.  

Nelle opere di questo architetto non c’è nulla dell’esagerato decorativismo del tardo barocco ma c’è, piuttosto, immaginazione spaziale e un attento studio della forma.

Enrico Carlone