La chiesa di Dio Padre Misericordioso di Roma: architettura, bellezza e liturgia dei nostri tempi
E la rubrica “Alesia ed i suoi compagni di viaggio” continua il suo cammino all’insegna della “educazione alla bellezza” con il prezioso contributo dell’amico architetto Enrico Carlone
di Enrico Carlone*
Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX l’architettura di chiese era dominata dallo storicismo e cioè dalla tendenza ad imitare, anche in modo eclettico, gli stili delle epoche passate. Anche la liturgia, per l’immobilismo che pesava sulle istituzioni ecclesiali, era rimasta quella del passato, benché da più parti se ne invocasse la riforma. Fu così che all’inizio del ‘900 nell’Europa centrale ebbe inizio un movimento spontaneo denominato Movimento liturgico. Promosso da monaci ed intellettuali, tra cui il teologo di origini italiane Romano Guardini, questo movimento cominciò a prospettare un rinnovamento nella celebrazione dei riti cristiani per adeguarli alle genti del XX secolo.
L’incontro tra Romano Guardini e l’architetto Rudolph Schwarz portò, prima e dopo il secondo conflitto mondiale, alla realizzazione, in Germania, di nuove chiese con schemi tipologici basati sull’attiva partecipazione dei fedeli alla liturgia; venne abbandonato lo storicismo e alle modifiche nella disposizione spaziale l’architetto cominciò ad associare anche l’uso di nuovi materiali da costruzione come il cemento armato, il calcestruzzo a vista, il vetro.
Negli anni ’60 le istanze innovative del Movimento liturgico sfociarono nel Concilio Vaticano II.
Indetto da Papa Giovanni XXIII nel 1959, fu ufficialmente aperto l’11 ottobre 1962 e, riunendo cardinali, patriarchi e vescovi da tutto il mondo, si rivelò come un vero e proprio Concilio “ecumenico” e cioè universale. Non si proclamarono nuovi dogmi ma si volle piuttosto “aprire la Chiesa alla lettura dei segni dei tempi”. Attraverso una delle quattro Costituzioni Conciliari, la “Sacrosantum concilium”, fu sostanzialmente rinnovata la liturgia con conseguenti riflessi sull’architettura delle chiese. Tuttavia mentre con il Concilio di Trento (1545–1563) la Chiesa aveva dato indicazioni precise sia sul piano della liturgia che su quello architettonico, la stessa cosa non è accaduta con il Concilio Vaticano II. Dalle norme vaticane non sono emersi schemi spaziali e funzionali precisi ma – giustamente – solo degli indirizzi generali per cui, sulla traccia di quanto iniziato da Rudolph Schwarz nell’ambito del Movimento liturgico, si è avviata tra gli architetti una difficile e faticosa ricerca sulla configurazione dello spazio della chiesa e più in generale sull’architettura delle nuove chiese.
La ricerca è tuttora in corso e la chiesa di Dio Padre Misericordioso rappresenta un importante contributo al rinnovamento della tipologia ecclesiale.
Nell’ambito del programma “50 Chiese per Roma 2000” ed in vista del Giubileo del millennio, il Vicariato di Roma bandì un concorso internazionale di architettura ad inviti per la costruzione della chiesa giubilare che doveva sorgere a Tor Tre Teste, un quartiere periferico della città. Tra i sei progetti presentati da architetti di fama mondiale vinse quello dell’americano Richard Meier. Nel marzo 1998 venne posata la prima pietra della nuova chiesa; data la complessità dell’opera e il suo elevato costo, la costruzione richiese oltre cinque anni e la cerimonia di dedicazione fu celebrata nell’ottobre del 2003. Alla fine del secolo scorso uno storico dell’architettura, Manfredo Tafuri, aveva definito l’architettura di Meier come un “sistema di sistemi”: un insieme di elementi tra loro separati che vengono assemblati dall’architetto con grande sensibilità e sapienza coniugando superfici piane e curve con costruzioni geometriche più articolate.
Anche la chiesa di Dio Padre Misericordioso appare come un assemblaggio di strutture e architetture compiute che compongono, nel loro insieme, l’edificio: un organismo architettonico autonomo qualifica la zona absidale e la retrostante sagrestia; un altro, sul lato opposto, caratterizza la zona dell’ingresso e incornicia le canne dell’organo; tre gusci in cemento bianco, un lungo muro di spina e setti murari rettilinei più bassi definiscono lo spazio dell’aula. Questi diversi elementi architettonici sono raccordati da pareti e coperture in vetro che separano l’interno dall’esterno lasciando penetrare una grande quantità di luce. La luce e il bianco delle superfici sono componenti essenziali dell’architettura di Meier ma in questo caso assumono una valenza particolare; egli stesso scrive che nella sua chiesa “la luce è utilizzata come metafora del Bene, in tutta la sua perfezione” e auspica “che gli interni siano lasciati disadorni per permettere alla luminosità dello spazio di diffondere un forte messaggio spirituale”. Dalla composizione di cui sopra scaturisce un impianto planimetrico di tipo tradizionale e cioè un’aula direzionata sull’asse ingresso – altare – abside che è una costante nell’architettura di chiese a partire dalle prime basiliche cristiane.
Ma quest’aula assume una forma assai particolare: mentre sul lato destro è delimitata dal muro rettilineo che crea una fuga prospettica verso il presbiterio, sul lato opposto è definita da tre setti murari curvi posti in successione che dilatano asimmetricamente lo spazio che poi si richiude verso l’alto. Le grandi aperture ritagliate sulla superficie del primo e del secondo setto mettono in collegamento l’aula con spazi laterali dove trovano posto il coro, il fonte battesimale e, più in disparte, la cappella feriale con la penitenzieria. Si tratta di spazi complementari come erano, nel passato, le navate laterali o le cappelle secondarie. L’organizzazione degli spazi rispetta le indicazioni della Nota Pastorale della Conferenza Episcopale Italiana sulla progettazione delle nuove chiese e risponde a una precisa gerarchia visiva: la zona presbiteriale con i principali fuochi liturgici è immediatamente percepibile, rialzata, e separata dalla zona riservata ai fedeli; l’altare, l’ambone, la sede, realizzati in travertino romano e di disegno essenziale, hanno come sfondo una candida parete. Al di sopra di questa superficie piana, su una mensola, si erge un crocifisso ligneo incorniciato da una profonda strombatura. E’ un volume scavato asimmetricamente che termina con una piccola apertura rettangolare verso il cielo. L’asola di luce attira lo sguardo di chi varca la soglia della chiesa per ricondurlo, attraverso la strombatura, al crocifisso che costituisce il punto focale dell’aula. Particolare appare la posizione della custodia eucaristica che, posta fuori dell’area presbiteriale, è comunque visibile sia dall’aula che dalla cappella feriale nella quale è di fatto collocata. Il fonte battesimale è prossimo all’ingresso principale della chiesa ma ad esso si può accedere anche da una entrata autonoma posta sulla vetrata tra il primo e il secondo guscio. Da una terza porta, presente sulla parete a vetri tra il secondo e il terzo guscio, si accede direttamente anche alla cappella feriale e ai confessionali. Ad uno schema planimetrico piuttosto tradizionale corrisponde, invece, un alzato inconsueto. All’esterno, la facciata principale è caratterizzata dalla sezione delle tre conchiglie, dal taglio del muro che separa la chiesa dai locali del ministero pastorale e da ampie vetrate; sulla destra c’è anche un basso campanile, ma è separato dalla chiesa e inserito nell’architettura dei locali parrocchiali. E’ una facciata insolita ma, a ben vedere, ripropone con superfici curve e in modo asimmetrico – cioè solo su di un lato – quello schema antico che nelle chiese a pianta basilicale proponeva navate laterali ridotte in altezza e larghezza rispetto alla navata centrale. Le tre conchiglie sono poste in successione, hanno lo stesso raggio di curvatura e altezze degradanti verso l’esterno. Anche le vetrate di copertura poste tra le conchiglie sono ad una quota che si abbassa gradualmente rispetto alla copertura dell’aula. L’ampiezza della vetrata di facciata sottostante la prima e più alta conchiglia e l’importanza del portale denunciano la retrostante presenza dell’aula liturgica; le ridotte dimensioni delle vetrate tra le altre due conchiglie e la minore importanza delle porte, segnalano che dietro ci sono spazi laterali con funzioni diverse e complementari. Il campanile, di lato alla chiesa e distaccato dal corpo di fabbrica principale, riprende un modo ricorrente di porre la torre campanaria.
L’architettura di questa chiesa – realizzata a Roma in occasione del Grande Giubileo del 2000 – è stata letta, con taglio ecclesiologico, come la rappresentazione della “Barca di Pietro”, cioè della Chiesa di Roma. Le tre conchiglie, simbolo della Trinità, rappresentano le tre vele della barca che solca il mare del terzo millennio. Tuttavia, nella sua relazione di concorso Meier scrive “… tre cerchi di uguale raggio sono alla base delle tre conchiglie, che insieme con il muro di spina costituiscono il corpo della navata. Il tutto si riferisce discretamente alla Trinità” e su un’altra pubblicazione “… la planimetria della chiesa è generata da sezioni circolari. Il cerchio vuole simboleggiare la perfezione, la cupola del firmamento.”
Forse non è un caso che il tema della volta venga declinato dall’architetto solo in questa sua opera: una chiesa di Roma.
In questa città l’arco, la volta, la cupola sono temi architettonici ricorrenti sin dall’antichità; in particolare la cupola è presente in molte chiese e caratterizza il suo panorama.
Varcando la soglia dell’edificio l’impressione che si ha è quella di uno spazio in cui si fondono in modo nuovo – rispetto all’antico – la direzionalità longitudinale della navata e il verticalismo ascensionale della cupola: una vera e propria cupola non c’è, ma i tre gusci in cemento bianco che si incurvano verso l’alto sono porzioni di cupola, una cupola destrutturata.
Chi accede alla chiesa e vi sosta viene prima attratto dal crocifisso che dal fondo domina l’aula ma poi è indotto ad alzare lo sguardo verso la sommità della potente volta. Questa si interrompe, sfonda l’aula in alto e permette alla luce di entrare dal soffitto vetrato attraverso il quale si vede il cielo: come già accaduto in passato, la chiesa diviene un luogo intermedio, uno spazio ideale che mette in collegamento cielo e terra. Nel ‘600, per esaltare questa funzione di collegamento, le volte delle navate venivano illusoriamente sfondate e affrescate in modo da raccordare l’architettura della chiesa con la volta celeste: Richard Meier, ricorrendo a tecniche costruttive allora inesistenti, realizza in modo nuovo questo luogo intermedio e apre lo spazio della chiesa al cielo.
* Enrico Carlone
Enrico Carlone, architetto libero professionista con studio in Roma, esercita la propria attività nell’ambito della progettazione, del restauro e della consulenza. Appassionato di storia dell’arte e di storia dell’architettura predilige le tematiche inerenti l’architettura di chiese. In collaborazione con altri professionisti ha partecipato a concorsi nazionali di progettazione e ha svolto studi e ricerche riguardanti alcune chiese di Roma. Ha tenuto seminari conferenze sul rapporto tra architettura e liturgia.