La casa

di Leonardo Lavacchi

Mai avrebbe Ugo immaginato di diventare proprietario di una splendida dimora, ma grazie ai pur esigui risparmi e a un mutuo agevolato, accantonando il sospetto che l’ammontare irrisorio del prezzo pattuito fosse dovuto a qualche magagna nascosta (un controllo scrupoloso dei documenti catastali e un esame approfondito della costruzione, favorito dall’agente immobiliare che gli aveva perfino lasciato le chiavi per delle ulteriori visite, quasi gli pesasse trattenersi all’interno dell’edificio, lo avevano condotto alla conclusione che dal punto di vista fiscale e architettonico fosse tutto in regola – del resto non guardiamo troppo per il sottile quando corrisponde ai nostri desideri ciò che viene offerto) era riuscito ad acquistare una villetta che, isolata in cima a un poggio ameno, circondata da un giardino nel quale troneggiava un’imponente quercia, dominava i campi in mite digradare fino al fiume, alla strada, al paese.

Conclusa felicemente la trattativa, firmò senza indugi il contratto, pagò e fu sua la casa; dopo di che divenne impaziente di andare ad abitarvi e, confortato dall’abbondanza di spazio che gli avrebbe consentito di occupare qualche stanza mentre lavorava alla manutenzione delle altre e di provvedere quindi pian piano all’imbiancatura e alle piccole riparazioni necessarie, una settimana dopo l’acquisto traslocò nel nuovo domicilio, trasferendovi i pochi mobili con i quali era arredato il piccolo appartamento in affitto nel quale aveva fino ad allora vissuto da solo. Il giorno stesso, una calda giornata di maggio con la fragranza della primavera che penetrava da tutte le finestre aperte, dopo aver sistemato, sia pur provvisoriamente, l’essenziale, scese in paese a cenare: il ritorno fu una lenta passeggiata piacevole sul sentiero rischiarato dalla luna piena.

Rientrato in casa si sentì pervadere da una strana inquietudine che, già leggermente avvertita al mattino, era andata via via intensificandosi durante la giornata, per svanire però con l’uscita in paese, talché Ugo non le accordò eccessiva importanza, ritenendola imputabile all’eccitazione del cambiamento e risolvibile con un buon sonno – e poi, tempo era di coricarsi. Una volta sotto le coperte, la sensazione si accentuò in ansia e angoscia fino a sfociare in terrore, inspiegabilmente fintanto che poté restare di ragione convinto che niente di minaccioso fosse presente, più che giustificatamente quando avvertì nell’oscurità un rapido abbassamento della temperatura e una lieve corrente d’aria, come mossa da un battito d’ali, e udì il cigolio di una porta, il tintinnio dei vetri di una finestra, porte e finestre che era sicuro di aver ben chiuso quando si era messo a letto e fuori non spirava un alito di vento. Se non fossero bastate quelle manifestazioni a terrorizzarlo, ecco che anche percepiva la propria volontà affievolirsi nel gelo che invadeva la stanza, soggiogata da una forza formidabile che lo chiamava ad alzarsi e a uscire per trascinarlo verso un destino che presagiva orrendo, tanto che gli fu necessario uno sforzo sovrumano per resistere, per restare nel letto rannicchiato in posizione fetale, non osando accendere la luce né tirar fuori la testa dalle coperte e soprattutto senza addormentarsi, perché capiva che nel sonno sarebbe divenuto succube dell’altrui volere: mai conobbe più lunga notte e solo quando cominciò a filtrare nella stanza il primo lucore dell’alba e a dissolversi il gelo notturno riuscì a rilassarsi per, spossato, addormentarsi.

L’affittuario che aveva in precedenza abitato nella casa si era suicidato impiccandosi a un ramo della grande quercia pochi giorni dopo il trasloco, venne Ugo a sapere quando, risvegliatosi nella tarda mattinata, scese in paese e rivolgendosi a coloro che riteneva potenzialmente disponibili alla chiacchiera cercò le informazioni che potessero far luce sul mistero. Non ottenendo niente dal fornaio, dal macellaro e dal postino, gli fu chiaro come quell’argomento provocasse imbarazzo e reticenza, ma non desisté ed ebbe maggior fortuna con il barbiere – evidentemente l’attitudine categoriale prevale sulla scabrosità del tema – che non ne sapeva granché, ma fu almeno in grado di rivelare che il suicida, venuto da fuori a vivere da solo nella casa, era in apparenza una persona tranquilla e con la testa a posto, anche se i pochi giorni di permanenza sconsigliavano di emettere un giudizio definitivo, che invece fu decretato dopo l’insano gesto, perché nessuno sano di mente si alzerebbe da letto nel pieno della notte per andare in pigiama ad appendersi con una corda al collo.

Così, divenendogli chiaro dove sarebbe stato trascinato e quale sorte gli fosse riservata se, grazie alla sua resistenza tenace dovuta forse a un’oscura premonizione, non fosse riuscito a contrastare la forza che era in procinto di dominarlo, si trovò di fronte a una grave decisione da prendere, combattuto nell’alternativa fra abbandonare tutto e fuggire, perdendo la casa e i risparmi nel naufragio del sogno che pareva realizzato, o tornare lassù e lottare, subendo di nuovo la potente pressione alla quale non a lungo si sarebbe saputo opporre, e rischiando quindi di perdere la vita, che più della casa valeva. Non riusciva a comprendere chi o cosa fosse l’entità sovrannaturale che esercitava una volontà tanto orribile, quale la sua natura, quale lo scopo, se da pura malvagità mossa o dal semplice gusto di esercitare un potere incontrastato, ipotesi quest’ultima che lasciava aperte delle possibilità, concedendogli, se si fosse mostrata vera, una carta da giocare. Decise che avrebbe giocato.

All’imbrunire si sistemò senza spogliarsi nell’unica poltrona, trepidante in un’attesa che fu breve, perché appena si fece buio di nuovo percepì gli strani rumori, la corrente d’aria, il gelo tremendo, la pressione della forza che lo chiamava all’esterno, e con fra le mani una corda trovata chissà dove, senza cercare di resistere, s’incamminò verso la grande quercia, trasognato come per la perdita di contatto con la realtà, marionetta ormai priva di coscienza, remissivo come chi accetta il proprio destino e ne prova, per quanto crudele esso sia, un misero sollievo, quale il naufrago esausto nel contrastare l’onda alfine trova pace nel lasciarsi travolgere. Ma giunto ai piedi della quercia riunì tutte le forze che era riuscito a risparmiare e prostrandosi enunciò la sua umile preghiera:

– Riconosco il tuo potere e mi sottometto alla tua volontà per implorare clemenza: consentimi di abitare nella casa e mai ti mancherò di rispetto.

Fu un lieve stormire di frasche e Ugo, sentendosi la mente affrancata dal terrore e dall’oppressione, lesse nelle ghiande che caddero al suolo e su di lui un pegno di accettazione del patto.

Ugo visse nella villetta – senza sentirsene l’unico proprietario – si sposò ed ebbe dei figli che educò nel rispetto della natura in generale e in particolare della quercia, assurta al rango di nume tutelare. Un unico incidente venne a turbare l’equilibrio felicemente instaurato, quando la figlia invitò a passare con lei il fine settimana un amico studente di architettura, il quale cercò di esporre durante la cena le valide prospettive strutturali e paesaggistiche all’esterno della casa che senza l’ingombro dell’albero sarebbero state disponibili. Ugo, dopo un primo momento di ansia, si rasserenò perché il discorso fu troncato sul nascere dalla figlia stessa, che fece sdegnosamente notare come fosse fuori discussione l’abbattimento di un albero da essi considerato come un membro della famiglia; ma notando durante la notte un certo abbassamento della temperatura che si accentuava nell’avvicinarsi alla stanza degli ospiti restò, per intervenire all’evenienza, guardingo fino all’alba, quando sentì che qualcuno apriva il portone e affacciatosi alla finestra vide il giovane, bianchi i capelli la sera prima neri come il carbone, allontanarsi frettolosamente dalla casa, giù per il sentiero, verso il paese.