Il terremoto in Turchia e Siria: una prova per tutti, con tante domande

GIUSEPPE CAROZZA

La disperazione della Turchia e della Siria, i due Paesi più duramente colpiti da uno sciame di scosse telluriche che in realtà ha investito parte importante del Medio Oriente, facendosi sentire fino in Israele e in Iraq, sta nelle immagini delle città sconvolte e distrutte, delle famiglie spezzate, dei volti di chi tiene la mano di una persona sepolta dalle macerie nella speranza di vederla riemergere viva. Ha fatto, in proposito, il giro della Rete anche qui da noi il video in cui ad Aleppo, città della Siria settentrionale, capitale dell’omonimo governatorato e secondo centro urbano per popolazione dello Stato siriano, dopo la capitale Damasco, dai resti di una casa crollata, viene estratto un neonato, partorito dalla mamma forse proprio durante il terremoto e miracolosamente salvo. Come ad aggiungere ulteriore tragedia ad un evento già di per sé sconvolgente, ecco che una telecamera in una strada turca ha ripreso l’attimo dell’inizio. Quando, sotto a un bagliore di fulmini, la terra ha cominciato a scricchiolare, poi a scuotersi, sempre più rabbiosa, di dosso quei palazzi, quelle case che per decenni e persino per secoli aveva retto. Orribile il suono dei muri che ballano prima di aprirsi, del cemento armato che sembra ribellarsi, non vuole cedere e poi, in un clangore schianta. E dopo il boato spaventoso, il silenzio: e nebbia, solo una fittissima nebbia sulla città.

Città? Al mattino, dall’alto, nel ronzio dei droni sembreranno, quelle falangi di palazzi accartocciati, nidi di formiche. In un bar sotto casa, in una Campobasso che, ancora sonnolenta, sta con fatica riprendendo i ritmi consueti di una altrettanto consueta giornata lavorativa dopo una notte trascorsa, ancora una volta, in compagnia di temperature quasi siberiane, mentre anch’io infreddolito sto andando a scuola in macchina, noto con curiosità un gruppo di persone intente a guardare lo schermo della tv per un paio di minuti, mute. Poi non regge, volge lo sguardo a terra, paga il caffè ed esce. Troppo, troppo male in Turchia, e in Siria, già massacrata dalla guerra. Un male davvero insostenibile. In verità, penso fra me e me proseguendo con fatica il cammino verso il mio liceo, il peggio è ciò che in quelle immagini non si vede: sotto, dentro il  cemento, nelle intercapedini in cui ancora un po’ d’aria rimane. Le madri con i loro bambini prigionieri, il figlio che ti muore fra le braccia, le grida, i lamenti. Nel buio e nella polvere che brucia gli occhi e la gola. Acqua, acqua, implorare un goccio d’acqua. Battere disperatamente contro un muro, ma nessuno ti sente. Il raspare disperato di un cane che cerca il suo padrone.

Come cento atomiche, è stato detto, non un sisma ma un’enorme furia, un’apocalisse sul sonno delle famiglie, dei bambini. Una mole, una sorta di Vajont di dolore innocente. A questo punto mi sovviene un interrogativo dal sapore biblico ad interpellarmi con la sua acre proposta: ma, non è scritto che <<ogni capello del vostro capo è contato?>>.  Al pensiero allora di ciò che accade sotto le case crollate, e che non sapremo mai, mi è quasi meno doloroso quell’affannarsi frenetico di soccorritori sulle macerie, con le scale, con le ruspe, con le semplici mani. Cercano, prima di tutto, i bambini, che, piccoli, possono sopravvivere per ore in minimi spazi. Se ne vede in un video una che carponi, in pigiama, scivola fuori da sotto una lastra di cemento, come un gatto. O come un miracolo. Se ne vedono, neonati, in braccio a uomini che forse non sono i loro padri, eppure piangono di gioia, nel sentirseli caldi sul petto, nel sentirli vivi. Commuovono, i soccorritori inquadrati dall’alto dei droni, così piccoli, su quello sfacelo. Che può fare in fondo una ruspa sulle rovine di dieci piani di cemento? Eppure, come si affannano, come rischiano la loro stessa vita, come si fermano di scatto, se appena sembra di cogliere, da là sotto, una voce. Gli uomini sanno anche, a volte, essere buoni (a volte. In Siria, ancora fresco è il sangue di un altro massacro. In Ucraina tuonano i cannoni).

Ma, mi dico fissando l’asfalto ghiacciato del parcheggio dell’edifico dove finalmente son giunto, gli occhi a terra, io proprio non riesco a capire, e quasi mi ribello. Tutta quella morte, durante il sonno di migliaia di bambini che sognavano il giorno, la mamma, la scuola. Di fronte a tutto questo lo comprendo, l’Ivan dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij che voleva <<restituire il biglietto>>. Il biglietto per questa vita, restituirlo, come rinunciando a un giro di giostra troppo caro, dal costo insostenibile: non trovando risposta né pace, di fronte al dolore innocente. Eppure quei là, in quella terra lontana eppur così oggi a noi vicina, si affannano a scavare, a salvare, e aiuti stanno arrivando da tutto il mondo, anche dal nostro piccolo e povero Molise, sotto forma di cibo, farmaci e non armi, almeno per una volta. Così radicato nel cuore dell’uomo è anche un desiderio di bene, accanto a tanto male. Te ne stupisci, quasi. Perché, se fossimo figli del nulla, dovremmo desiderare, anche, il bene? C’è da attaccarsi a questo pensiero come a una corda di salvataggio. C’è da pregare, da soffrire con, e aiutare. Come spiegare – continuo imperterrito a chiedermi – ciò che è accaduto nei giorni scorsi in Turchia, sotto a quel cielo di fulmini, che roba è stata quel furore della terra? C’era forse anche la notte del 6 febbraio 2023 in Turchia e in Siria, nella notte del Sabato che Cristo ha traversato? C’erano anche quei bambini?

Smettila, dico a questo punto a me stesso, che pretendi di capire? Non c’è risposta a tanta sofferenza. Solo, ostinato, coriaceo anzi, mi rimane dentro tuttavia una speranza: mi viene dallo scalpitare veloce degli studenti che, con la voglia semplice e genuina di trovare calore dentro le loro aule a dispetto del freddo mattutino, entrano nell’androne del liceo con il proprio tipico giovanile chiacchiericcio, sperando di ricevere sempre qualcosa di nuovo rispetto al giorno precedente. Metafora, quest’ultima abituale operazione, in qualche modo, della quotidiana ricerca di serenità da parte di tutti noi, pur nella consapevolezza di un costo talora anche alto da pagare.