Il romanzo in Italia (VII): Pizzuto

di Leonardo Lavacchi*

Già avevamo annunciato che l’infittirsi novecentesco della produzione romanzesca ci avrebbe imposto delle scelte personali e arbitrarie. Rinunciando anche a seguire un ordine cronologico ci occupiamo qui dei romanzi di Antonio Pizzuto (Palermo 1893 – Roma 1976).

Nel 1964 Gianfranco Contini pubblicava sul Corriere della Sera un articolo dal titolo “La vera novità ha nome Pizzuto”, mettendo in risalto l’eccezionale figura, originale e isolata, del “Joyce italiano” (secondo un’etichetta suggestiva coniata dallo stesso critico). Infatti proprio da Joyce aveva preso le mosse – ma non si era lì arrestato – un percorso individuale di ricerca che doveva sfociare in uno stile peculiare, in delle modalità espressive estreme per coerenza e rigore, e che rischiava di passare inavvertito nel panorama letterario italiano di quegli anni, caratterizzati, come del resto fuori dai confini nazionali, da una rigogliosa sperimentazione letteraria. Si pensi al Gruppo 63. 

Ci permetteremo di ignorare i suoi primi due romanzi Rapin e Rapier, pubblicato postumo, e Sul ponte di Avignone(1938), acerbi tentativi che sembrano avere interesse più per i biografi che per i critici. Signorina Rosina (1959), Si riparano bambole (1960) e Ravenna (1962), i tre successivi dei quali ci occuperemo qui, rappresentano delle tappe significative nel percorso dell’autore, che poi si manifesterà appieno nelle pagine posteriori; un termine, questo di “pagine”, che appare nei titoli di alcune delle opere successive (paginette, pagelle). Poiché ci limitiamo qui a parlare dei romanzi, potremo evitare di prendere posizione a proposito della polemica distinzione fra un un Pizzuto leggibile e un Pizzuto illeggibile (o incomprensibile). I tre romanzi appartengono chiaramente al primo tipo, sia pure presentando una difficoltà di lettura crescente, tanto che per alcuni è proprio Ravenna a segnare il confine fra le due epoche.

In Signorina Rosina si narra di due amanti, sposato lui, che con grande difficoltà riescono a incontrarsi. Entrambi hanno dei guai lavorativi: lei, impiegata, corre il rischio di perdere il posto, lui, geometra, è sotto inchiesta per il crollo di un muro nel penitenziario dal quale un detenuto è evaso. Il filo conduttore è Rosina, un nome che appartiene a numerosi personaggi che appaiono nel romanzo più o meno casualmente, più o meno brevemente, ma anche a un’isola, a una nave, a delle asine.

Si riparano bambole è la storia di una vita – con una notevole componente autobiografica, cosa che dal punto di vista letterario ha poca importanza – dall’infanzia alla vecchiaia. Ma anche di una casa, che subisce ad opera del tempo lo stesso logoramento del personaggio; questi ne gode in giovinezza la vivacità anche culturale e la ritrova decrepita e cadente nell’ultima visita che si concede prima di ritirarsi in una casa di riposo dove, appunto, si riparano bambole.

Ancora una casa in Ravenna, abitata da una donna con la figlia piccola, mentre il padre è spesso assente per lavoro, e frequentata da un amico di famiglia, anziano intellettuale. Invecchiano i genitori e la bambina cresce, si sposa, ha un figlio. Alla fine resta soltanto la casa, abitata da altre persone. Il titolo non sembra avere altra motivazione se non di essere il titolo del romanzo che stava cercando di scrivere il geometra di Signorina Rosina

Per quanto riguarda lo stile, possiamo fare un discorso complessivo, purché si tenga presente che da un romanzo all’altro le caratteristiche si accentuano, i motivi si radicalizzano, con una progressione, abbiamo detto, costante e coerente. Lo stile, dice lo scrittore siciliano, è costituito da sintassi, lessico e ritmo (cfr. Nuovi Argomenti, Milano, 1969 aprile-giugno, nuova serie n. 14), ma nel suo caso la sintassi è particolarmente povera: è preferito il periodo breve, monofrastico o paratattico, con tendenza all’abbandono dei tempi finiti della coniugazione verbale e affidamento della subordinazione logica a gerundi e participi. Ricco e raffinato è invece il lessico, geniale nella concentrazione di significati plurimi in un unico lessema. Il ritmo ricercato e pregevole ha fatto sì che la prosa di Pizzuto fosse paragonata a una partitura musicale.

Ma lo stile non è, secondo noi, solo questo. Ne fa parte il tono con cui le vicende e i personaggi sono presentati, che in questi romanzi è di estrema delicatezza, di umorismo bonario, di struggente umanità. Ne fa parte l’organizzazione del testo: scene come frammenti, epifanie illuminanti con levità. Ne fa parte il materiale informativo fornito al lettore, allusivo ed evanescente – si è parlato di reticenza semantica – la cui scarsità, insieme alla complessità lessicale e ad una narrazione non lineare, provoca fatica e disorientamento, obbliga a uno sforzo che già in se stesso è più che ripagato. Si richiede dunque al lettore un ruolo attivo, la partecipazione al processo creativo, la ri-costruzione degli stati o eventi più accennati o evocati che descritti. E si tratta di banali vicende quotidiane, di scene di vita ordinaria, che acquistano un valore emblematico e – si perdoni il termine abusato – universale in quanto trasposte fuori del tempo e offerte come nuove esperienze.

Ma la storia c’è, abbiamo potuto identificare delle trame e nel secondo e terzo romanzo notiamo un totale parallelismo fra andamento della narrazione e cronologia degli accadimenti. Da questo punto di vista Pizzuto è ancora “classico”, se classici consideriamo Benet, Lezama, Cortázar, Broch, Musil, Proust, Gadda e, ovviamente, Joyce. E, in definitiva, la collaborazione richiesta, la “contuizione” secondo il termine ideato da Pizzuto per richiamare il completamento dell’intuizione dell’autore da parte del lettore, non è diversa da quella che è resa necessaria da una particolare complessità sintattica, che spesso ha lo stesso scopo e lo stesso effetto: rappresentazione di una realtà che, per l’uomo moderno, univoca e semplice non è, lineare neppure, ma frammentaria, inafferrabile, dinamica, nuovamente esistente ad ogni nuova percezione ingenerata dall’esperienza vitale e dalla buona letteratura.

Secondo un’affermazione di Pizzuto, “l’unico criterio del bello è quello pragmatista dell’instancabilità nel gustarlo”. In letteratura, la frequentazione costante di certe opere non è provocata soltanto dal godimento estetico, ma dalla continua scoperta, ad ogni lettura, di nuovi sorprendenti contenuti. È questo l’effetto che abbiamo riscontrato nei tre romanzi dello scrittore siciliano.

*Leonardo Lavacchi

pensionato, lessicografo, grammatico e traduttore (per ex professione), letterato (per passione), narratore (per ossessione). È autore di romanzi e racconti poco letti. Ciò che pretende da un racconto, al limite anche da un romanzo, è che sia degna cornice di qualche bella frase.