Il romanzo in Italia (VI): Svevo

Per la rubrica settimanale “Alesia ed i suoi compagni di viaggio” il caro amico Leonardo ci omaggia, ancora una volta, con un interessante contributo di letteratura

di Leonardo Lavacchi*

Dice Svevo: “Perché la fama arrivi, infatti, non basta che lo scrittore la meriti. Occorre il concorso di uno o più altri voleri (il critico veramente importante oppure l’uomo d’affari accorto) che influiscano sugl’inerti, quelli che poi leggono le cose che i primi hanno scelto. Una cosa un po’ ridicola, ma che non si può mutare.” Per Svevo fu decisivo l’intervento di Eugenio Montale nel 1925, ma anche in seguito avremo il riscontro di questa osservazione, per esempio nei casi di Antonio Pizzuto e Stefano D’Arrigo e della loro promozione da parte di Gianfranco Contini e Elio Vittorini rispettivamente. Questa circostanza è valida per chi non ha fatto dello scrivere la propria professione, non ha raggiunto per altre strade una certa notorietà e, non presentando delle opere consone al proprio tempo, assumerà poi la figura del precursore dotato di uno stile personale unico. 

Ector Smith, in arte Italo Svevo, impiegato e poi inserito nell’attività industriale del suocero, si presenta da dilettante nel panorama letterario con tre romanzi che si lasciano alle spalle – e quanto lontana! – la letteratura allora in voga in Italia, attardata fra il verismo provinciale del Verga e l’estetismo frivolo del D’Annunzio: Una vita (1892), Senilità(1898), La coscienza di Zeno (1923). L’accoglienza che riceve non è però delle più felici e prevalgono i giudizi negativi, come questo di Umberto Morra del 1926, un esempio fra i tanti: “Le manchevolezze nello stile di Italo Svevo sono tanto evidenti, che il primo giudizio su questi libri sarà sempre una condanna: sono scritti male […]”. O come questo di Guido Piovene, emblematico dello stato miserevole in cui versa la cultura italiana (siamo nel 1927 e il fascismo ha acuito l’isolamento): “Italo Svevo, commerciante triestino, scrittore di tre mediocri romanzi […] è improvvisamente annunciato come un grande scrittore da uno scadente poeta irlandese abitante a Trieste, l’Joyce, uno scadente poeta di Parigi, Valery Larbaud […]”. Interrompiamo pietosamente la citazione, anche perché Piovene rivedrà il suo giudizio nel 1946 scrivendo che “Svevo è uno dei cinque o sei grandi scrittori di romanzi apparsi in Europa dopo la prima grande guerra.” Meglio tardi che mai.

Intanto si comincia ad apprezzare l’opera, ma se ne denigra l’elemento linguistico, concedendo tuttalpiù che certe magagne si possono perdonare: “Sicché, a ben guardare, le scorrettezze stilistiche, e a volte addirittura sintattiche e grammaticali del linguaggio senza storia di cui si è servito, ci appaiono in certo modo indifferenti, di fronte alla forza vergine della rappresentazione […]”, scrive Sergio Solmi nel 1927.

Poi c’è nella critica un’evoluzione, ben rappresentata da Giacomo Devoto (nel 1938, poi ribadita nel 1953) il quale attribuisce allo Svevo il carattere di “precursore” ed evidenzia che le sue strane “complicazioni sintattiche” sono determinate da una sorta d’“incessante dialogo, fra un io che ricorda e un io che racconta”, il quale non ha ancora possibilità di rappresentazioni linguistiche adeguate.

Ancora citiamo Gianfranco Contini (1946): “Solo il più superficiale dei retori oserebbe asserire che Svevo scriva male” per “la perfetta adeguazione della sua scrittura alla durata interna dello scavo”; e Umbro Apollonio (1949): “Quando gli si rimprovera una certa trascuratezza di stile, si confonde lo stile – forma propria, unica e irripetibile – con la lingua – modulo fisso e abitudinario, immobile e per nulla creativo”.

Ci siamo dilungati in citazioni perché ci è sembrato di notare in tutti i giudizi, negativi e positivi, un equivoco di fondo: l’identificazione dello stile con l’aspetto linguistico, lessicale e sintattico – come se in un’opera letteraria non ci fossero altri elementi che lo determinano – e, nelle valutazioni più grossolane, la messa in risalto della componente dialettale, sia in dispregio, sia, da Pasolini in poi, esaltata.

Torneremo su questo, ma soffermiamoci un momento sulla questione piuttosto dibattuta dell’unitarietà dell’opera del romanziere triestino. Fra il primo e l’ultimo dei romanzi c’è certamente una grande differenza, spiegabile se li consideriamo il punto di partenza e di arrivo di un lungo percorso, quello sì costante e unitario. Svevo, deluso per l’indifferenza della critica, non  pubblica niente nei venticinque anni intercorsi fra Senilità e La coscienza di Zeno, ma non smette di scrivere, come dimostra l’abbondante materiale reperito dopo la sua morte, non interrompe mai la sua ricerca, e l’ultimo romanzo rappresenta la conclusione di un processo di maturazione e di approfondimento dei motivi che già in origine sono presenti. Si è osservato che la sua era una posizione privilegiata, il miglior punto di osservazione di fronte alla stanchezza di un mondo che nella Trieste porto di Vienna aveva raggiunto uno splendore supremo e che si stava via via spengendo, teatro ideale dunque di una decadenza che si riflette nei personaggi rappresentati nei tre romanzi, che vengono così ad affiancarsi a quelli che la migliore letteratura europea ha reso celebri: non a caso il suo nome è stato abbinato a quelli di Proust, di Joyce, di Musil.

Ma tornando allo stile, notiamo che la sua opera più matura è quella che ha suscitato, in Italia almeno, minor entusiasmo. A lungo, quando già il suo successo era decretato, si è preferito Senilità, di struttura più tradizionale, a La coscienza di Zeno, nella quale appare la confessione nella sua forma più moderna, cioè indirizzata allo psicoanalista. Svevo ha acquisito una conoscenza della psicanalisi eccezionale per quei tempi e quell’ambiente, e la utilizza per il suo scavo all’interno dell’uomo, nella profondità della psiche, ma non senza farne oggetto della sua sapiente ironia. Ed è proprio l’uso della confessione ironica che ci obbliga ad inserirlo nel cammino iniziato con il Tristram Shandy di Sterne –con il romanzo moderno, quindi – che da noi, come abbiamo già avuto occasione di osservare in questi articoli, ha visto tappe notevoli nel monologo del protagonista de Il buco di Guerrazzi e nella narrazione in prima persona dell’Altoviti di Nievo. 

Poi, ancora, è tratto stilistico l’organizzazione del racconto per argomenti, con la rinuncia ad una successione cronologica lineare. È così rappresentata per mimesi la frammentazione della coscienza che impedisce all’uomo moderno di concepirsi come unità, di percepire coesione nella propria individualità e lo condanna quindi a divenire un inetto, un uomo senza qualità.

La scrittura di Svevo, come hanno messo in evidenza i suoi detrattori, per questo aspetto con ragione, non è scorrevole ed elegante: era inevitabile che così fosse, abbiamo visto, ma ciò nuoce all’immediata fruibilità del testo e ne limita ancor oggi l’accessibilità, pur non influendo sul valore artistico dell’opera.

*Leonardo Lavacchi

pensionato, lessicografo, grammatico e traduttore (per ex professione), letterato (per passione), narratore (per ossessione). È autore di romanzi e racconti poco letti. Ciò che pretende da un racconto, al limite anche da un romanzo, è che sia degna cornice di qualche bella frase.