La rubrica “Alesia e i suoi compagni di viaggio” ospita questa settimana il prezioso contributo del caro amico Arnaldo Brunale
Un tempo, quando in ogni casa c’era un camino, alla vigilia di Natale si svolgeva il suggestivo rituale del ceppo natalizio o ciocco natalizio. Gli studiosi rintracciano le origini di questa tradizione nell’era precristiana dove, secondo alcuni, il legno rappresenta lo spirito della vegetazione e il fuoco il calore del sole che garantisce la vita. Altri, invece, credono che sia una reminiscenza dell’accensione del focolare sacro, centro della vita familiare e dimora degli spiriti degli antenati. Malgrado le origini pagane del rituale, il ceppo rimanda anche ad una forte simbologia cristiana. E se nel rituale del ciocco è, indubbiamente, ravvisabile una rievocazione dell’Ultima Cena di Cristo, il ceppo rappresenta l’albero del Bene e del Male; il fuoco, invece, è l’opera di Redenzione di Gesù Cristo. Il pane, preparato per l’occasione con cura particolare, indica il mistero della Divina Trinità e diventa, dunque, metafora dei legami familiari. Un rito antico, dunque una tradizione centenaria, un bisogno sempre attuale di calore e speranza: tutto questo era e resta il rito del ciocco di Natale, un semplice gesto per non dimenticarci delle radici della nostra cultura e della società in cui viviamo.
La ricerca del ciocco da ardere nel camino, spesso, durava un intero anno. Quando veniva trovato si conservava con cura fino alla sera della vigilia di Natale. Come nei rituali, nulla era lasciato al caso, per questo la scelta del tronco da mettere nel camino era molto importante, come erano importanti il suo trasporto e la sua accensione che, spesso, erano accompagnati da veri e propri cerimoniali da ripetersi tutti gli anni. Ma di quale tipo di legno doveva essere il ceppo natalizio? Di norma, era selezionato, a seconda delle zone, fra la legna più pregiata ossia il frassino, il pino, la quercia o, anche, alberi da frutta. E, come si svolgeva la ricerca del ciocco ed il susseguente rito, affascinate e, al tempo stesso, misterioso, in Italia e in alcune parti del mondo?
In Dalmazia, ad esempio, il ceppo, trasportato dal capofamiglia, mentre il resto della famiglia reggeva delle candele accese, veniva addobbato con fiori e foglie ed era usanza lanciare su di esso, mentre ardeva, del grano o del vino. Durante questo rito il capofamiglia era solito dire: “Benedetta sia la tua nascita!”. In Francia, tutta la famiglia veniva coinvolta nella ricerca del ceppo che, una volta trovato, si usava metterlo sotto il letto a protezione dai fulmini, oppure lo si mischiava al foraggio per favorire la fertilità delle mucche. Si credeva, inoltre, che i resti del ceppo prevenissero le malattie dei vitelli e la ruggine del grano. In occasione di questo rito propiziatorio sempre in Francia, per esempio, si usava cuocere nelle campagne il cosiddetto pain de Calandre. Poi se ne tagliava, nella parte superiore, un pezzetto sul quale venivano incise tre o quattro croci. Questo “rito”, affermavano i contadini, era un talismano capace di guarire da molti mali. Ciò che restava di questo pane veniva consumato da tutta la famiglia.
In Norvegia, invece, poteva farlo solo ed esclusivamente il padre. Una curiosità gastronomica si ricollega al classico dolce nordico, il tronchetto natalizio, che non è altro che una trasposizione culinaria del rito del ceppo.
In Inghilterra, il ceppo veniva, addirittura, preso nel giorno della Candelora (2 febbraio) dell’anno prima. Anche in Inghilterra, come in Francia in questa occasione i fornai regalavano ai clienti una focaccia beneaugurale, detta Christmas-batch, non diversamente da quelli della Lombardia di un tempo che offrivano il panettone a Natale. D’altronde non a caso Betlemme, in ebraico Betlehem, significava profeticamente Casa del pane, nome derivato probabilmente dal fatto che la cittadina era simile a un granaio perché la circondavano campi di frumento.
In Provenza, mentre il capofamiglia andava alla ricerca del ceppo, il resto della famiglia intonava preghiere che dovevano favorire il parto di bambini, di agnelli e di capretti, ma anche la crescita del granturco, ecc.
In Catalogna è ancora diffusa la tradizione del Tió de Nadal, un tronco intagliato dove i bambini bendati obbligano il ceppo “a defecare” i regali al suono delle canzoni tradizionali e delle mazzate.
Nel Périgord, regione storica del sud-est della Francia, si usava costruire l’aratro con i resti non bruciati del ceppo, credendo che così i raccolti sarebbero stati più fruttuosi.
In Germania, si usava far bruciacchiare il ceppo lentamente per poi toglierlo e gettarlo di nuovo sul fuoco come protezione dai fulmini.
In Grecia, si credeva che il ceppo natalizio allontanasse dalla propria casa i “kallikantzaroi”, i mostri maligni del folklore locale.
Nel Montenegro, si usava mettere sul ceppo un pezzo di pane e aspergere il tronco con del vino.
In Portogallo, i resti del ceppo si conservavano in quanto si credeva che prevenissero dai danni solitamente provocati dalle tempeste.
In Serbia, si usava tagliare il ceppo la mattina della Vigilia di Natale, prima del sorgere del sole, e riportarlo a casa, addobbato con dei nastrini, prima del tramonto. Era poi il maschio più anziano della casa ad accenderlo, recitando una preghiera.
Negli Stati Uniti, antecedentemente alla guerra civile americana, si usava concedere agli schiavi una pausa dal lavoro per tutto il periodo in cui ardeva il ceppo di Natale. Una particolare usanza si diffuse, a partire dal 1933, a Palmer Lake, in Colorado: si trattava della cosiddetta “caccia al ceppo”, durante la quale persone, vestite con mantelli e cappucci rossi o verdi, cercavano il tronco migliore che, in seguito, veniva trascinato per le vie cittadine. Sarebbe stato di cattivo augurio, invece, se lo si acquistava. E, di contro, era di buon auspicio, se veniva preso in un bosco di proprietà.
In Italia il ciocco era chiamato in vari modi, secondo le regioni: ad esempio suc in Piemonte, zoch nel Vento, ciocchére nell’Italia centrale e così via. Quando il ceppo entrava in casa c’era sempre una gran festa: il tronco veniva addobbato con nastrini, foglie e fiori. I bambini più piccoli si mettevano a cavalcioni su di esso, mentre, al suo passaggio, le persone si toglievano il cappello inchinandosi.
A Milano, una volta trovato il ciocco, il capofamiglia lo prendeva fra le braccia come fosse un bambino e lo poneva nel camino accendendolo con una fascina di ginepro benedetto. Poi, versava del vino in un bicchiere, ne rovesciava un po’ sulle fiamme, beveva un sorso del rimanente e lo passava a tutti i membri della famiglia; a quel punto gettava una moneta sul ceppo ardente e ne donava un’altra a tutti i familiari. Infine, da tre grandi pani, preparati il giorno prima con grano speciale, antenati del panettone, tagliava una fettina che veniva messa accuratamente da parte per essere data come “medicina” a chi, durante l’anno, si ammalava. Al riguardo, lo scrittore Pietro Verri, nella sua Storia di Milano, scritta nel 1783, narra dell’usanza cucinaria che, nel IX secolo, animava le feste natalizie legate al territorio milanese: la preparazione di tre grandi pani, diversi da quelli che si mangiavano durante l’anno. Ogni capo famiglia doveva tagliare i tre pani distribuendoli nel corso di una celebrazione rievocativa dell’Ultima Cena, detta “rito del ciocco”.
A Cervia, il ceppo, prima di essere bruciato, veniva spruzzato di acqua benedetta e lo si lasciava ardere per tutta la Notte Santa. La mattina dopo il capofamiglia raccoglieva la cenere e la spargeva attorno alle piante per renderle più fertili.
A Fabbriano, la cenere veniva sparsa solo sulle viti per preservarle dai bruchi (detti “rughe”) recitando, durante l’operazione, questa breve preghierina: “Vite, vite, n’t’arrugà/ ché la cennora te reco / dello ciocco de Natà”.
In Val di Chiana (Arezzo), ogni famiglia si radunava davanti al ceppo bruciante, tenendosi per mano e cantando in vernacolo lo scongiuro: “Sia felice il ceppo/ domani è il giorno del pane/ ogni grazia entri in questa casa/ le donne, le capre, le pecore figlieranno/ abbonderanno grano e farina e vino”. Poi bendavano i bambini che dovevano avvicinarsi al camino e battere con le molle sul ceppo recitando una canzoncina detta Ave Maria del Ceppo che aveva la virtù di far giungere loro dolci e regalini.
In Romagna, invece, prima di recarsi alla Messa di Mezzanotte, si ponevano di fronte al camino, ove ardeva “el zòc ed Nadèl”, tre sedie vuote lasciando la tavola apparecchiata con i resti del cenone perché, in assenza degli abitanti, in casa sarebbe arrivata la Sacra Famiglia e avrebbe così potuto riscaldarsi e ristorarsi.
In Val d’Aosta, i carboni lasciati dal ciocco venivano messi in un sacchetto di lino e usati per guarire malattie della pelle delle persone e degli animali col semplice sfregamento sulla part contaminata.
In Liguria, la cenere del “çéppu” (possibilmente d’alloro, pianta magica nemica delle tempeste) era sparsa il 6 gennaio negli angoli della casa e sui davanzali per allontanare “béghe, ratélle, mugugni e tròn”, ossia grane, litigi, proteste e tuoni.
Parlando di regioni più vicine alla nostra, come l’Abruzzo, si può affermare con certezza che tradizioni del genere sono ancora in uso in vari paesi, anche se cambiano nome a seconda dei luoghi dove di svolgono (farchie, faugni, ndocce, ecc., per il rituale dei fuochi; técchie, tìcchie, ciuòcche, pèzze (a Campli), capezzóne (a Pescocostanzo e Roccaraso), štélle, scheggia (a Teramo e nei dintorni), tizzóne (a Pietracamela), cióccu (all’Aquila e in tutta la Marsica). Un po’ ovunque era il capofamiglia ad avere il compito di preparare lu técchie e a metterlo nel camino (tranne ad Atri, dove dovevano occuparsene i figli, altrimenti sarebbe stato di cattivo augurio). A Palena, ju tìcchie, si accompagnava con dodici legnetti più piccoli, che simboleggiavano i dodici apostoli accanto a Cristo. Lu técchie aveva forti valenze cristiane, perché si diceva che servisse a scaldare il Bambino nel momento della nascita: la nòtte de Natàle n’z’arbéle lu foche, “la notte di Natale non si copre il fuoco!”, né, un tempo, si smorzava il lume o la candela, perché bisognava garantire un po’ di luce per la nascita di Cristo. L’usanza di porre un lume vicino al ciocco era molto diffusa (Campli, Teramo, Popoli, Ari, ecc.). Ma sia lu técchie sia il lume non avrebbero dovuto mai consumarsi completamente fino al mattino, altrimenti sarebbe stato un atto empio! In alcuni paesi il ciocco veniva riacceso un po’ ogni sera fino a Capodanno (Campli), oppure fino all’Epifania (nell’Aquilano e a Sant’Eusanio del Sangro). Se durava ancora di più, era segno che il padrone di casa sarebbe vissuto ancora a lungo.
A volte, durante la sera della vigilia, si metteva nel fuoco anche un po’ del cibo consumato a cena: quella era la parte per Gesù Bambino: pure lu técchie ha da magneà, “anche il ciocco deve mangiare”, come si diceva a Francavilla al Mare. A Ortona, invece, gli anziani sostenevano che il cibo gettato nel fuoco non avrebbe dato alcun odore di bruciato, in quella occasione. In altri paesi, si lasciava del cibo accanto al ceppo per tutta la notte, sempre in onore del Bambino, che, per devozione religiosa, sarebbe stato mangiato il mattino successivo (Lanciano o Pescina). A Chieti, sopra al ciocco si metteva anche qualche moneta. I resti carbonizzati del técchie venivano conservati gelosamente dai contadini, come se fossero oggetti sacri. A Campli, si portavano in campagna la mattina di Capodanno. All’alba, prima del sorgere del sole, venivano riaccesi recitando questa formuletta: tande londane se véde lu foche, tande londane pozza šta sèrp’e ttope “tanto lontano si vede questo fuoco, tanto lontani possano stare serpenti e topi (talpe)”. Successivamente, i carboni venivano spenti e sparsi nei campi, perché si diceva che avessero il potere di preservarli per tutto l’anno dalle tempeste (San Pelino, Poggio Picenze, Ari, ecc.). A Caramanico i carboni venivano riaccesi in occasione della nascita dei bachi da seta (le magnate), affinché potessero crescere forti e senza malattie. A Teramo, si bendavano i bimbi che, condotti davanti al “tecchio” ardente, dovevano picchiarvi sopra con le molle, esprimendo desideri. A mezzanotte, poi, sul ceppo venivano gettati, uno alla volta, 12 chicchi di grano, simboleggianti i mesi dell’anno. Se il chicco bruciava volando all’insù, il prezzo del frumento sarebbe salito; se andava all’ingiù, sarebbe rimasto invariato.
Nel nostro Molise, invece, differentemente da ciò che avveniva in altre contrade d’Italia, dove il ciocco, insieme ai resti di quello dell’anno precedente, si faceva bruciare per dodici notti, fino all’Epifania, vigeva la tradizione che il ceppo dovesse bruciare tutta la notte fino alla mattina di Natale. Prima di farlo ardere, il capofamiglia eseguiva un breve rito augurale, che poteva essere o un brindisi o, soprattutto, una preghiera. Appena il ciocco incominciava a bruciare, buttava su di esso, in segno apotropaico, la prima forchettata dei maccheroni da consumarsi durante la cena ed alcune bucce di agrumi. Un altro rito scaramantico, simile a quello che veniva eseguito nel teramano, era quello di gettare sulla mensola bollente del camino, uno alla volta, 12 chicchi di grano, simboleggianti i mesi dell’anno. Gli auspici che se ne ricavavano erano la positività o la negatività sui raccolti dell’anno nuovo, a seconda se il chicco, per effetto del calore, saltava o abortiva su di essa. Una curiosa usanza, prima di cenare, era quella di distribuire, da parte del padrone di casa, ai componenti la sua famiglia, una piccola ciotola contenente una varietà di legumi aromatizzati fatti bollire lentamente in un tegame di creta lasciato accanto al fuoco del camino. Questo piatto povero, di origine contadina, consumato anche la notte di s. Silvestro, era conosciuto con il nome di Pezzenta, da non confondersi con la Farénata, un piatto di cereali simile che veniva consumato il 17 gennaio, giorno in cui si festeggiava s. Antonio Abate.
La tradizione più sentita voleva che ogni famiglia, dopo la cena, si riunisse attorno al camino per ammirare le fiamme avviluppare il legno fino alla sua quasi totale combustione. Ciò che restava del tronco veniva raccolto e conservato fino all’anno successivo. Ai suoi resti si attribuivano poteri taumaturgici tanto che, durante l’anno, essi erano utilizzati dalle famiglie per le situazioni più disparate come ad esempio il loro benessere, la fertilità delle donne, la cura dei vitelli, aiutare le mucche a partorire, seminare e mantenere la salute del raccolto, prevenire la ruggine del grano, curare il mal di denti, i geloni, tenere lontano la grandine e gli incendi a casa e i disastri delle tempeste. Durante la combustione del ciocco, dopo la cena, i componenti la famiglia se ne restavano assorti davanti al camino, invocando la benedizione e la protezione divina sulla casa per un anno sereno e prospero. Oggi, purtroppo, si sta perdendo questa bellissima tradizione, ma esiste ancora qualcuno, un vero “paladino”, che porta avanti i riti e le usanze nella propria famiglia.
Prof. Arnaldo Brunale