Il Risarcimento Del Danno Nei Casi Di Silenzio Della P.A. Parte – XI CAPITOLO I. Natura ed elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità nei casi di silenzio della P.A.
La rubrica a cura di Riccardo Segamonti
- Il procedimento di formazione del silenzio inadempimento
Quando si analizza il tema del silenzio della P.A. a fronte di un’istanza del privato, ci si occupa principalmente delle conseguenze pregiudizievoli correlate all’inerzia della P.A. cioè delle tecniche di tutela che l’ordinamento giunge a favore del privato a fronte di un’inerzia della P.A.
Nell’ordinamento italiano esistono due tipi di tutela avverso il silenzio: una di tipo successivo, l’altra di tipo preventivo.
Nel primo caso l’ordinamento consente al privato di provvedere, quando si manifesti il silenzio inadempimento o silenzio rifiuto della P.A., davanti all’organo giurisdizionale. Tale inadempimento è detto anche silenzio significativo, ossia il legislatore non ascrive nessun significato rispetto all’obbligo della P.A. di concludere il procedimento con provvedimento espresso. Nello specifico il privato può reagire impugnando l’inadempimento al fine di ottenere da parte del giudice un provvedimento che sblocchi la situazione di stallo.
In secondo luogo vi è la tutela di tipo preventivo: l’ordinamento previene le situazioni di stallo, assegnando al silenzio un particolare significato; cioè, non si attende che si verifichino effetti pregiudizievoli in conseguenza del silenzio. Nella specie il legislatore ha attribuito al silenzio un significato quando la P.A. non adotta un provvedimento nei termini di legge (c.d. silenzio significativo): è l’ipotesi del silenzio assenso ex art. 20, L. 241/1990.
Nel corso degli anni il legislatore ha perfezionato l’istituto del silenzio con l’art. 2, legge n. 15 del 2005[1], accelerando e semplificando quanto previsto dall’art. 2, legge 241 del 1990 (obbligo di concludere il procedimento). In particolare, il ricorso avverso il silenzio può essere proposto anche senza necessità di diffida all’amministrazione inadempiente fino a tanto che perdura l’inadempimento o comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini. La legge 14 maggio 2005, n. 80[2] a distanza di soli tre mesi dalla precedente disposizione di legge n. 15 del 2005 (in particolare l’art. 6 bis) modifica ulteriormente l’art. 2 della legge n. 241 del 1990, come anche l’art. 7, comma 1, legge n. 69 del 2009 (che ha introdotto nel quadro normativo la risarcibilità del danno da ritardo)[3] da ultimo il recente D.L. n. 5/2012[4]. Tali disposizioni calcano la tutela dell’interesse legittimo, incentrato sempre di più sull’accertamento della fondatezza sostanziale della pretesa.
Infatti
nella sua nuova versione l’art. 2 impone alla P.A. il dovere di concludere il procedimento
mediante l’adozione di un provvedimento espresso[5].
Si è preso atto in seguito della rilevanza meramente comportamentale del
contegno omissivo: non si è più parlato di silenzio-rifiuto, bensì si è pensato
più pertinentemente a silenzio-inadempimento, in quanto violazione della regola
sostanziale (inadempimento).
[1] La legge n. 15/2005 è intitolata “Modifiche e integrazioni alla Legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa”; sul punto si veda il T.A.R., Lazio Latina, sez. I, n. 173, 25 febbraio 2014, secondo cui «l’art. 2 della L. 7 agosto 1990, n. 241, è stato modificato dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, con l’introduzione del comma 4 bis (la successiva sostituzione dello stesso art. 2 l. n. 241/1990, ex l. 14 maggio 2005, n. 80, lo ha trasformato nel V comma) per cui “decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso il silenzio, può essere proposto anche senza necessità di diffida all’amministrazione inadempiente fin tanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 o 3. È fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti”. Il comma 3 stabilisce, poi, in via residuale il termine di novanta giorni per la conclusione del procedimento; laddove, il comma 2 rinvia invece ai termini stabiliti, per i singoli procedimenti, da fonti specifiche, e decorrenti «dall’inizio di ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte».
[2] In primo luogo, continuando sulla strada avviata dalla L. 241/1990 e proseguita dalla L. 537/1993, l’art. 3, co. 1, del D.L. 35/2005 (conv. in L. 80/2005) ha riscritto l’art 19 della 241/1990. Liberalizzando tutte quelle attività private prima sottoposte a provvedimenti autorizzativi «il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge o di atti amministrativi a contenuto generale, e non sia previsto alcun limite e contingente complessivo per il rilascio degli atti stessi»,con la sola eccezione dei provvedimenti rilasciati da Amministrazioni proposte alla cura di interessi “qualificati” e dei provvedimenti imposti dalla normativa comunitaria.
[3] L’art. 2 legge n. 241/1990, modificato dall’art. 7, comma 1, legge n. 69/2009, prevede che ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso. La norma stabilisce che il termine di conseguenza dei procedimenti è di trenta giorni e conferisce gli enti il potere di stabilire termini specifici. I termini per la conclusione del procedimento decorrono dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte. La norma prevede il potere di sospendere il termine per una sola volta e per un periodo non superiore a trenta giorni. Salvi i casi di silenzio assenso, decorsi i termini per la conclusione del procedimento, il ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 21 bis, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, piò essere proposto anche senza necessità di diffida all’amministrazione inadempiente, fintanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui commi 2 o 3 del presente articolo. Il giudice amministrativo può conoscere alla fondatezza dell’istanza. È fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrono i presupposti. La mancata emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale.
[4] D.L. 9 febbraio 2012, n. 5, Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo.
[5] Sul punto si veda Cons. St., sez. IV, n. 1767, 11 aprile 2014, secondo cui «nel sistema dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990 la fissazione di un termine procedimentale di durata massima del procedimento amministrativo, con evidenti finalità acceleratorie, ancorché non perentorio (e dunque, al di là della persistenza o meno del potere di provvedere in capo all’amministrazione inadempiente), comporta la qualificazione come inadempimento del fatto stesso dell’inutile spirare di tale termine, posto a presidio della certezza dei tempi dell’azione amministrativa, qualora sull’istanza della parte non sia stato emesso alcun provvedimento, positivo o negativo. Per questa ragione, le cause di interruzione o sospensione del termine per provvedere sono tipiche e di stretta interpretazione, e non lasciano spazio a sospensioni sine die motivate da qualsivoglia esigenza estranea al paradigma normativo che regola l’attività amministrativa Laddove, però, si rientri nel paradigma normativo, il termine finale di definizione del procedimento può essere prolungato, con conseguente esclusione della formazione del silenzio inadempimento (Conferma della sentenza breve del T.A.R. della Campania – Salerno, sez. I, n. 1841/2013)».
Sul tema si segnala, anche, Cons. St. sez. IV, n. 2545, 20 maggio 2014, secondo cui «perché possa imputarsi un silenzio-inadempimento occorre che l’Amministrazione contravvenga ad un preciso obbligo di provvedere (e, quindi, di procedere). In regime di trasparenza e partecipazione un siffatto obbligo può sussistere non solo in presenza di una specifica previsione normativa, ma anche ogniqualvolta esigenze di giustizia sostanziale impongono l’adozione di un provvedimento espresso, in ossequio al dovere di correttezza e buona amministrazione, in rapporto al quale il privato vanta una legittima e qualificata aspettativa ad una esplicita pronuncia (Conferma della sentenza del T.A.R. Lazio, sez. III ter, 15 novembre 2013, n. 9791)».