Il Quaderno: ‘custode’ di infanzia, miseria e felicità

Appuntamento settimanale con la rubrica “Alesia ed i suoi compagni di viaggio“. Suggestivo contributo di letteratura di Leonardo Lavacchi

Travi e tarli. L’occorrenza delle due parole nella stessa frase è presagio di un’imminente sciagura. Al fine di scongiurarla ho ispezionato con molta cura i soffitti di una casa colonica che mi sono trovato a possedere per una serie di circostanze sulle quali non starò adesso a dilungarmi. È così che ho trovato il quaderno, uno di quei quaderni a righe con la copertina nera e il bordo delle pagine rosso che hanno il potere di rievocare, a chi è tanto avanti con gli anni da averne usati, l’infanzia, il fuoco del camino, la miseria e la felicità. Trascrivo qui tutto, fedelmente e senza niente togliere o aggiungere, compresi i titoli che anche nel manoscritto sono sottolineati. Dirò soltanto che la casa è immersa nella campagna toscana, forse un po’ troppo isolata ma facilmente raggiungibile, e che presenta sul retro uno spiazzo ombreggiato d’estate da enormi pampini rampicanti su per una grezza intelaiatura di legno.

La pergola

1   Le chiocciole

Il sacrificio è consumato. Alla facilità spensierata dell’ingestione delle vittime, decine di chiocciole naviganti nel sugo denso della loro cottura, non corrisponde altrettanto agevole digestione, che si preannuncia invece lunga e laboriosa. Sono apparse all’improvviso dopo la prima pioggia, ad affollare i viottoli dei campi e soddisfare la rapacità di numerosi cercatori. Segnati nel loro destino erano i tre giorni di purga nella segatura e la successiva cottura fra spezie e pomodoro, per essere poi servite in tavola, estratte dal guscio con liturgica meticolosità e minuscola forchetta a due rebbi, divorate col tocco di pane inzuppato nel sugo piccante, innaffiate con vino rosso vecchio di tre anni. Dopo di che il rituale reclama una sosta prolungata nella poltrona di vimini sotto questa pergola, con una pipa dal camino capace e il fiasco del vinsanto a portata di mano. Non un alito di vento viene a dissipare l’ascensione, pigra per lo scarso gradiente termico fra il fumo espulso e l’aria afosa, delle spire aromatiche; inevitabile pare accondiscendere all’appesantimento delle palpebre per l’abbiocco e ad estrema difesa dal cielo abbacinante di una campagna affogata nel caldo e nella polvere, là fuori dal pergolato, intorno a questa casa nella quale sono ospite con mia moglie Lucrezia; non consente però il dolce soccombere la turba dei pensieri, in disordine vaganti, violenti come sogni, rapidi nel disegnare traiettorie sempre più prossime a sfiorare il nodo centrale, che non voleva e non doveva essere manifestato. E allora ecco il quaderno nel quale incanalarli, tali pensieri, nel tentativo forse vano di esorcizzarne i più molesti almeno.

Caldoe polvere da metà luglio fino all’acquazzone di tre giorni fa, che ha indotto allo scoperto le chiocciole da recondite dimore e me dal riparo postprandiale della pergola. Ma dopo appena un’ora il paniere era colmo e il sole di nuovo cocente, l’afa insopportabile nell’umidità fermentata, e con la camicia incollata alla schiena per abbondante traspirazione ho allungato il passo verso casa, ho depositato il paniere in cucina, e senza far rumore sono salito al piano di sopra per raggiungere il bagno al termine del lungo corridoio, dove già pregustavo algido ristoro, con transito inevitabile davanti alla porta socchiusa della camera del mio ospite, dalla quale provenivano gemiti inconfondibili.

Ho capito che il mio incedere, silenzioso in rispetto di chi, presumevo, fosse ancora assopito nel riposo pomeridiano, aveva ottenuto un esito ben diverso, ma la funesta premonizione non è valsa ad arginare l’impulso che mi esigeva affacciato e sbirciante. Il lenzuolo lasciava scoperta la testa, il collo taurino, le spalle brunite di lui; il suo corpo celava quello di Lucrezia, della quale vedevo un braccio, candido nel contrasto, e il volto alterato, le labbra imploranti, gli occhi socchiusi. Stavo immobile sulla porta, incapace di staccarmi dalla scena ineffabile, quando lei li ha aperti, gli occhi, percorsi da un lampo di sorpresa nel dirigere a me lo sguardo, e poi li ha richiusi, mentre il suo respiro diveniva un roco affanno da annegata e i movimenti dei corpi sotto il lenzuolo, da lievi e ritmati che erano, si facevano disordinati e violenti, sempre più accelerati. La mia comparsa da spettatore, insomma, ha scatenato un orgasmo così intenso, una così completa partecipazione all’atto amoroso, quali da attore non riuscivo a provocare più da chissà quanto tempo. In silenzio ho ridisceso le scale.

Il nostro ospite non deve nemmeno essersi accorto della mia presenza, mentre io e Lucrezia, quasi per muta intesa, abbiamo evitato ogni accenno a quanto è accaduto e allo stesso modo abbiamo evitato ogni contatto dei nostri corpi. Che si possa dormire nello stesso letto senza nemmeno sfiorarsi è una scoperta che presto o tardi tutte le coppie stabili sono costrette a fare. Io ho tenuto i miei pensieri in purgo, insieme alle chiocciole, escludendoli dalla coscienza grazie a una strana capacità che il tempo e le delusioni hanno affinato e che pure in altre occasioni si era manifestata, seppur mai con tanta evidenza. Ne sto adesso completando la digestione e l’assimilazione.

Il caldo si fa sempre più insopportabile, perfino qui sotto la pergola, e meglio sarebbe salire in camera e cercare di dormire. Nel letto dove sarà già Lucrezia? Se finora la sua presenza non ha ostacolato il mio sonno, oggi giacere al suo fianco mi appare inconcepibile, quasi oggi soltanto l’adulterio avesse acquisito il suo pieno significato. Però non so ancora quale atteggiamento assumere, non so neppure se dovrei parlarne con lei, e avverto soprattutto l’esigenza di evitare una scenata; non certo, sia chiaro, a tutela di onore e dignità, termini risibili a fine secolo e qui, nella culla della civiltà, se usati a proposito di corna, bensì per il caldo che mal si concilia con gli alterchi coniugali. Né soffrirò per amore: prima del matrimonio, e subito dopo, credevo di essere innamorato di lei, e forse lo ero; ma poi si sa, il legame diventa indissolubile, o tale è visto, e il connubio riposante e pigro: all’amore chi ci pensa più? Né soffrirò per orgoglio: sono fermamente convinto che l’uomo possa e debba utilizzare le sue energie in modo molto più proficuo che nell’impegno costante e gravoso dell’appagare le fregole di una moglie, e non pretendevo perciò che dei nostri congiungimenti, sempre più fiacchi ed insinceri, lei fosse pienamente soddisfatta. In definitiva ciò che più mi turba è lo stupore conseguente al crollo di un convincimento: che dei principi morali, o pregiudizi se si vuole, fossero garanti della sua fedeltà. Meglio mi capaciterei del tradimento cittadino, se a ragione si sentisse trascurata quando il lavoro assorbe molto del mio tempo razionando e presenza e attenzione. Ma forse proprio in città è cominciata la tresca, e l’invito a venire qui a trascorrere le vacanze ne è stato il risultato: una circostanza questa che farebbe di me il classico intruso, ma il cui pensiero provoca una certa inquieta eccitazione.

Urge una scelta. Per il clima e l’inazione, tre giorni di astinenza cominciano a pesare. Posso considerare mia moglie un semplice strumento di piacere e utilizzarla malgrado tutto, ma temo che ciò venga a detrimento dei nostri rapporti futuri, quelli fuori del letto cioè, e ostacoli poi la tranquilla serenità, la perfetta armonia, perlomeno esteriori, della nostra convivenza, che tanto hanno contribuito ai miei successi nell’attività lavorativa. Ma è davvero tempo d’illazioni? Sarà il calore irrespirabile dell’aria, sarà il vinsanto che è calato nel fiasco come evaporando, ma questa pergola è simile a barca che affonda e sta per essere sommersa dai flutti. E allora perché tanti scrupoli? In fondo tutta la vita non è che un breve tragitto su di una barca che sta per affondare, e cercare un contatto concreto con la realtà intorno, vaghe onde spumeggianti e subito dissolte, è solo sciocca velleità. Non so perché ho scritto questo, ma è meglio che mi alzi e vada su: il tabacco non brucia più nella pipa diventata troppo umida, forse la digestione è ormai conclusa e anche l’inchiostro mi sembra prossimo a esaurirsi.

Solo un breve commento sull’aspetto del manoscritto: non vi sono dubbi che sia stata usata una stilografica, in quanto il tratto verso la fine di quello che lo sconosciuto autore ha chiamato primo capitolo si fa sbiadito, proprio come quando si esaurisce l’inchiostro; la scrittura riprende ben marcata all’inizio di questo secondo capitolo, con il serbatoio della penna pieno quindi, a giudicare anche da qualche macchiolina.

2   La vita nova

La campagna è anch’oggi affocata nel sole, l’ora è la stessa, lo stesso pergolato; la pipa è un’altra perché quella usata ieri è umida e lo sarà a lungo; il coniglio arrosto che avevamo a pranzo richiede una digestione meno laboriosa delle chiocciole e il lavoro che la mia mente deve sostenere è più lieve, per cui, se ora di nuovo sto scrivendo, è con diverso spirito, e non è l’esigenza di affrancarmi dal peso greve di pensieri molesti che mi spinge a farlo, ma il gusto di ripercorrere e meglio assaporare dei momenti estremamente eccitanti. Ciò che è cambiato è il rapporto con Lucrezia, al quale ho dato un’impronta nuova, chiara e ben definita, con decisione unilaterale, pur dovendo ammettere che lei non ha frapposto ostacoli, ma ha piuttosto assecondato questo corso inedito. Ricordo con precisione assoluta, rivivendolo per la seconda, terza, quarta volta, ciò che ieri ho fatto quando mi sono alzato da qui, che oggi, lo so bene, rifarò di nuovo appena la pipa sarà vuota, e che posso riferire soltanto con questa espressione: ho usato violenza a mia moglie. La combinazione di parole, imposte dall’uso nella loro reciproca fissità, acquisisce il valore di un’etichetta garante del contenuto e attribuisce alla mia azione così catalogata una concretezza psicologica che funge da agente lievitante, quale enzima nell’impasto, per la mia intima soddisfazione. Le ho usato violenza come a una donna incontrata per caso in strada, alienando dal mio agire ogni sentimento personale nei suoi riguardi, allo stesso modo che un bruto, immagino, dia libero sfogo ai suoi istinti più bestiali se una sconosciuta infiamma accidentalmente e involontariamente i suoi sensi. Quante volte lo avevo sognato! Quante volte, sdraiato su di una poltrona, o sul letto prima di addormentarmi, ho fantasticato di scene simili, con donne appena conosciute e subito desiderate, prima che si dileguassero, se non coincideva l’orientazione dei nostri passi, o che un felice approccio favorisse una storia per amicizia o amore! Non avevo mai dato peso a simili fantasie, che sfumavano dalla mia coscienza appena mi alzavo o il sonno vi metteva fine; ma ieri sono riemerse con prepotenza, quando ho dovuto riconoscere che ciò che stavo facendo era il risultato logico e fatale di un’esistenza di desiderio.

Sono salito in camera e Lucrezia era sdraiata sopra al letto, vestita con una gonna cortissima e una camicetta semi trasparente. Dormiva coricata su di un fianco, le gambe distanti fra loro e le braccia stese come se stesse correndo; il volto, che non riuscivo a vedere, girato verso il cuscino. In quel momento, strana circostanza, godevo di una calma eccezionale, giacché la mia mente era fredda e lucida, a efficiente servizio di un corpo nel quale l’eccitazione stava raggiungendo vertici inimmaginabili per la cosciente precognizione di ciò che stavo per fare. Dopo una breve attesa durante la quale, immobile ai piedi del letto, mi sono concesso un’ultima pausa pleonastica destinata a fugare ogni dubbio residuo, se ve ne fossero stati, mi sono avvicinato, l’ho afferrata per un braccio voltandola verso di me, l’ho colpita con forza sul viso, e ho visto chiaro nei suoi occhi lo stupore del risveglio diventare al riconoscermi muto terrore. Temevo che gridasse, ed ero pronto a impedirglielo in qualsiasi modo, ma non è stato necessario, forse perché il senso di colpa le aveva fatto presagire una qualche punizione che era disposta ad accettare. L’ho colpita di nuovo, e quando ho visto le sue labbra imporporarsi mi sono gettato su di lei strappandole gli abiti di dosso. Poi tutto si è confuso: mi sono restate immagini sfocate di atti, gesti, rumori, movimenti e invece chiare impronte delle sensazioni sconvolgenti che ho provato e che continuano a conturbarmi. Io stavo nel letto, sopra la donna che amavo e allo stesso tempo odiavo, alla quale elargivo piacere e infliggevo sofferenza, ed ero io la donna che subiva inerte la violenza provandone terrore e insieme godendone, e del pari ero io, come tre giorni prima, una terza persona presente nella stanza che immobile e distaccata osservava la scena brutale. Ero tutte queste persone, e nella progressiva dilatazione della mia coscienza ero il letto, e la stanza con i suoi mobili, di più, ero tutto il paesaggio fuori dalla finestra inaccessibile al mio sguardo, di più, ero il sole candente e il cielo infocato e la terra sitibonda, di più di più, l’universo intero ero io. L’improvviso afflosciarsi di ogni vigore, raggiunto e superato il culmine della frenesia erotica, mi ha ricondotto alla realtà, al cospetto di Lucrezia il cui volto esprimeva un appagamento profondo, una gratitudine sincera, una devozione assoluta.

Devo confessare che l’aver messo a nudo la mia natura più intima, ignota a me stesso fino ad allora, mi ha lasciato in uno stato di vago sbigottimento al quale non riuscirò a reagire, almeno finché le sensazioni provate perdureranno con tanta vivezza da escludere una profonda riflessione. Ho cercato di non dare troppo peso alle mie incertezze, di rimuovere i sensi di colpa, adducendo senza sforzo gli argomenti a sostegno di un comportamento che non esiterei a definire moralmente puro e socialmente accettabile. Nella società in cui vivo la violenza non è condannata in quanto tale, ma solo se è diretta a minacciarne la stabilità, mentre in determinate circostanze è perfino auspicata, se non imposta. I poliziotti, i giudici, i carcerieri, sono sempre e soltanto mossi da sete di giustizia o soddisfano altresì nel punire i colpevoli l’anelito più o meno inconscio di spaventare, soggiogare, tormentare? Il mio desiderio è affiorato alla coscienza grazie al tradimento di Lucrezia e alla sua accettazione del castigo, che hanno scatenato la mia brutalità, giustificandola e mettendo a tacere ogni scrupolo; ma lei pure aveva da scoprire qualcosa di sé, che è venuto alla luce quando il riconoscimento della propria colpevolezza l’ha piegata ad accogliere una punizione chissà quante volte nell’inconscio agognata ma che altrimenti avrebbe rifiutato con orrore. È indubbio che eravamo entrambi pronti, in sospeso sul crinale, in attesa di un segno sia pur vago, impazienti e smaniosi che i freni si allentassero e la macchina, carica di energia potenziale, si avviasse libera verso una ripida discesa.

Adesso, al compimento di una fumata meravigliosa quale da tempo non mi era concessa, chiaro indizio di un raggiunto equilibrio, mi accingo a salire di sopra, dove mia moglie mi starà aspettando. Queste ultime ventiquattro ore sono state brevissime, vissute con un’intensità vertiginosa.

Le ultime righe, sulla fine della pagina, presentavano una scrittura minuta, come se l’autore avesse voluto evitare di intaccare quella successiva; infatti il terzo capitolo inizia a pagina nuova.

3   L’abisso

Non è solo per le vicissitudini coniugali che mi pento di essere venuto in campagna. Il motivo primo che mi ha spinto a farlo è stata l’illusione di sfuggire al clima caldo e umido che rende invivibile la città in questo periodo, ma la calura che sto soffrendo qui non ha niente da invidiare all’afa cittadina. L’unico mio rifugio è questo pergolato, popolato tuttavia da fantasmi che offendono la mente e negano ristoro al corpo, senza che mi sia concesso d’invenire una condotta adeguata ad affrontarli. I miei pensieri, reputati un tempo i più fedeli alleati, sono armi dalla lama ottusa; la ragione, tanto esaltata dai filosofi, serve solo a giustificare azioni abominevoli con le loro conseguenze nefaste; la cultura, deputata ad affinare il giudizio, è niente più che nostalgia di epoche tramontate. Non so come potrò riprendere il cammino, in qualsiasi direzione esso si dipani, poiché dopo quanto è successo non mi è consentita ormai un’esistenza che scorra nei canali consueti del vivere comune; né tornerò a sognare, quando la realtà ha raggiunto e superato le più ardite fantasie; né seguiterò per la strada appena imboccata, ostruita in via definitiva da ciò che ieri è accaduto.

Dopo un buon pranzo e un’ottima fumata, ho lasciato la pergola per salire in camera, desideroso di ritrovare le emozioni tanto sconvolgenti del giorno prima, munito di sentimenti artificialmente preparati che me ne avrebbero consentito la fruizione. Entrando nella camera ho visto negli occhi di Lucrezia, che non dormiva e mi stava aspettando, un terrore inautentico, come se anche lei, desiderando che si ripetesse il rito profano nel quale era la vittima consenziente di un torturatore poco convinto, avesse predisposto i suoi sentimenti allo steso modo di chi assiste alla proiezione di un film dell’orrore ed è preparato al soprassalto. Di nuovo l’ho colpita, di nuovo l’ho spogliata strappandole gli abiti di dosso, e non è rimasta che la carne, debole e rassegnata, disposta a subire con stanchezza la violenza artefatta e bonaria di un carnefice che si scusa con il condannato per il tormento al quale il suo dovere gli impone di sottoporlo. Ma poi qualcosa di vero è accaduto, nel momento in cui le mie mani si sono strette con gesto disperato intorno al suo collo, offerto e fragile, e ho sentito sotto le mie dita la pelle soffice a coprire una cartilagine cedevole e facile da spezzare. Per un attimo è stata autentica la mia volontà annientatrice, da lei percepita tanto chiaramente che il suo terrore, palese negli occhi sbarrati, è divenuto sincero quanto il mio odio, mentre il suo corpo era percorso da un brivido violento come per una scossa elettrica, come albero percosso dal fulmine. Ci siamo trovati uniti in un orgasmo convulso e le mani hanno allentato la presa, non so grazie a quale istinto di salvamento, non senza lasciare sulla pelle diafana le tracce livide della pressione. Poi siamo rimasti lì, inerti e accasciati, due burattini ai quali, una volta calato il sipario, siano stati sciolti i fili, e di reale non c’era che il sudore dei nostri corpi. Mi chiedo adesso cosa ci rimane, quale sarà la prossima tappa, e non voglio una risposta, non voglio che ci sia una tappa ulteriore, perché ne ho paura.

Stamani ho vagato a lungo per la campagna, prima che sorgesse il sole, quando già avevo rinunciato alla speranza di trovare nel sonno un po’ di tregua alla mia angoscia, e sono giunto al lago, se così si può chiamare quella grossa pozza artificiale. Lago lo chiama la gente del vicino villaggio, che odia quel posto ed evita perfino di parlarne da quando un tale, non per nulla soprannominato il Matto, vi è annegato, senza che si sappia se per incidente o atto volontario. Mi sono seduto vicino al bordo e sono rimasto là per non so quanto tempo, immobile e assorto, fino a che un sole cocente non mi ha costretto ad alzarmi per un ritorno penoso, ma durante il quale ho espulso con la traspirazione ogni pensiero malinconico o funereo.

Dopo un lauto pranzo, cotolette di agnello a scottadito il piatto forte, a conferma della innegabile e squisita attenzione per la tavola del nostro ospite e delle ottime doti culinarie della donna che cura la casa e sembra riparare a tutto, sono tornato qui, a digerire e scrivere; ma non posso scacciare dalla mente l’immagine ossessiva del lago, l’attrazione inusitata che ha esercitato su di me, non mitigata dall’impressione sgradevole dovuta soprattutto alle sponde di sterrato, dove non un filo d’erba cresce, proseguenti, per come ci si può figurare, in un fondo melmoso, abitato da chissà quali viscidi vermi. Se chiudo gli occhi rivedo quelle acque così calme e nello stesso tempo così minacciose, ne subisco il fascino funesto, odo il richiamo imperioso e ineludibile del fondo che nel pensier mi fingo pur non avendolo visto o saggiato, quasi il mio corpo fosse stato già imprigionato, una volta, in tempi remoti, privo di vita cosciente, in quella massa fangosa.

So che Lucrezia in questo momento mi sta aspettando, consapevole del pericolo che correrebbe se ripetessimo l’esperienza erotica e mortifera, e per ciò ancor più eccitata; ma non salirò da lei. Questi due ultimi giorni sono stati forse gli unici della mia vita che ho vissuto davvero, ma non ho il coraggio di proseguire ed eviterò il sentiero che il mio destino ha tracciato lasciandomi l’arbitrio della scelta.

Meccanicamente, senza rendermi conto, ho posato la pipa per terra, lasciando che si spengesse.

La scrittura riprende in una nuova pagina con diverso tratto. Chi scrive usa una penna biro ed è differente anche la calligrafia. Ce ne dà conto, fin dal titolo del quarto capitolo, la lettura del testo.

4   Indagini

Ho trovato questo vecchio quaderno di scuola, nascosto dietro una trave del soffitto, nella casa colonica dove sto quest’anno trascorrendo le vacanze estive. Nascosto, si fa per dire: mi ha fatto tornare in mente la famosa ninfa che si inoltrava nella selva, non per sfuggire al fauno, ma per farvisi inseguire. Il suo aspetto di quaderno di altri tempi ha risvegliato la mia curiosità, invogliandomi alla lettura: ma non sembra che sia stato usato in epoca tanto remota. Quando ho finito, una semplice esclamazione: mah! Poi mi sono chiesto, senza usare la distorsione eufemistica: che cavolo è questo? E quindi, con maggior contegno: diario fedele o mera letteratura? Spingeva a propendere per la seconda ipotesi la cura stilistica, incompatibile con la tempesta di emozioni che avrebbe provato un partecipante effettivo agli eventi descritti; la congettura sembrava confermata dall’intitolazione del testo e dei tre capitoli nei quali era suddiviso. Ma siccome sappiamo bene che le opere di fantasia, anche se non ne sono il resoconto completo, contengono spesso dei riferimenti al vissuto reale, ho pensato che sarebbe stato interessante identificarne l’autore. Diciamo la verità: ho provato un senso di solidarietà con quello sconosciuto, reale o fittizio che sia, non per le sue intemperanze, ma per i disagi che avrà provato. In questa stagione solo Angli, Sassoni, Goti, Variaghi e altri appartenenti alle tribù del nord sanno apprezzare una campagna nella quale imperversano il caldo e la noia. Per lui, con quel regime alimentare perverso, e poi le corna, deve essere stato un inferno, se anche io, che almeno sono vegetariano e scapolo, anzi single, come si dice ora, mi sto chiedendo cosa ci sono venuto a fare. In definitiva le ricerche mi sono apparse un grato diversivo.

Ho cominciato le indagini nel villaggio poiché adesso la casa appartiene a una società non meglio definita; io l’ho avuta tramite un’agenzia e da quel lato c’è poco da fare. Fedele alle migliori tradizioni investigative ho cercato il postino, che poi è una postina. Sono così riuscito a sapere che il vecchio proprietario della casa, un vero signore, giovane, alto, robusto, veniva tutti gli anni a passarci l’estate, da solo. Un bell’uomo, ha voluto precisare la portalettere. Da lei ho pure saputo che una donna del posto aveva cura della casa in sua assenza, la preparava quando lui preannunciava il suo arrivo e si occupava delle pulizie quando era lì, soprattutto se c’erano degli ospiti. E cucinavo, ha aggiunto la casiera quando l’ho rintracciata, confermando che si trattava di un vero signore, giovane, alto e robusto, ma bello no davvero. Ho accertato dunque che il proprietario non doveva lesinare le mance e che le due donne non avevano gli stessi gusti in fatto di uomini, per quanto me ne potesse importare. Però mi sono chiesto se una delle due, e quale, mi avrebbe considerato bello, tenendo per me il dubbio. Dalla casiera ho saputo che di visitatori ne venivano spesso e non si trattenevano per più di qualche giorno. Un anno però…, sì, un anno era stato suo ospite un signore, vero ovviamente, per un mese o più, e quello sì che era bello. E c’era la moglie, bella pure lei. Ho immaginato come sarebbe stato il cane, se ne avessero avuto uno.

È opinione diffusa fra gli abitanti di quel paese, e chi potrebbe dar loro torto, che per passare un paio di mesi in una casa colonica non è necessario conoscere vita morte e misfatti dei precedenti abitatori. Di conseguenza con le mie domande stavo facendomi una fama poco lusinghiera. In ogni modo qualcuno mi ha consigliato di parlare col parroco, che la moglie dell’ospite frequentava assiduamente nel periodo che erano qui. Ci mancava un prete a complicare la faccenda, mi sono detto, percependo una certa allusione in quei suggerimenti. Quando però l’ho visto, anziano, rinsecchito, ingobbito, emanante un acuto odore d’aglio a tre metri di distanza, ho dovuto ammettere che l’allusione me l’ero immaginata, forse per infiorettare la vicenda. Non era certo un tipo da tresca amorosa e anzi, ho pensato che per frequentarlo assiduamente fosse necessaria una solida fede. Mi ha squadrato sospettoso e si è rassicurato dopo che gli ho menzionato i miei rapporti con un’importante università della capitale. Ho omesso di precisare che ero fra i firmatari di una certa lettera indirizzata al papa in occasione di una sua visita. Dal prete ho saputo dunque che quel tale era il direttore di un importante Istituto di Credito, che fumava la pipa, che era una persona cordiale ed educata come ce ne sono poche; di questi tempi poi (ahimè, il relativismo dilagante)! E un buongustaio. Uno insomma che sapeva apprezzare, con appropriata moderazione, il lato buono della vita terrena. La moglie, che si chiamava, si chiamava…, macché, Lucrezia no di certo, era una donna bella, non nel senso mondano, quello lui non poteva dirlo. Era una persona di buon cuore, un’anima eletta con un gusto raffinato per gli addobbi floreali. Oh questa? mi stavo chiedendo, ma poi mi ha chiarito che tali sue doti si erano manifestate nella ricorrenza del patrono del villaggio, Santo Alessandro martire, che come tutti sanno (non gli ho detto che ero l’unica eccezione) cade il 26 d’agosto. In quell’occasione il contribuito della bella (non in senso mondano) signora all’organizzazione dei festeggiamenti era stata determinante per la loro perfetta riuscita. Due persone insomma, teneva a precisare il sacerdote, la cui integrità morale non andava messa in discussione e alle quali, checché ne sentissi dire in giro, non era lecito attribuire turbe caratteriali, cosa che mi ero ben guardato dal fare. A dire il vero non avevo capito quali erano le doti del marito incompatibili con le turbe, delle quali niente avevo sentito dire in giro (adesso però sapevo che qualche chiacchiera c’era stata), se direttore di banca o buongustaio o fumatore di pipa. Della moglie l’amore per i fiori.

A quel punto restava da informarsi sul lago, vincendo le resistenze degli indigeni. Tanto la nomea di bizzarro impiccione già me l’ero fatta. Così ho saputo, ma ce n’è voluto, che il Matto non è stato l’unica vittima. Dopo di lui una donna, una che viveva da sola, di facili costumi e pure un po’ stramba. Qualche giorno dopo la sua scomparsa, che del resto nessuno aveva denunciato, si è visto il suo corpo riaffiorare dalle acque del lago. La morte non era dovuta ad annegamento, bensì, come ha rivelato l’autopsia, a strangolamento, dopo che aveva avuto un rapporto sessuale completo. È ignoto l’autore del crimine, e forse, per la pessima fama di lei, nemmeno ci si era dati molto da fare per scoprirlo. Avrei potuto completare l’inchiesta verificando se l’anno del misfatto coincidesse con la presenza nella casa colonica della coppia ospite, ma me ne sono astenuto: le mie indagini terminano qui. Adesso sono sotto la pergola, ad aggiungere questo quarto capitolo al quaderno, che poi riporrò dove l’ho trovato. Se il colpevole sta aspettando che qualcuno lo rintracci e metta fine alla sua attesa angosciosa, non sarò io a fargli questa grazia.

Qui termina lo scritto e restano nel quaderno ancora delle pagine immacolate. Verrebbe la tentazione di continuare a scriverci, di aggiungere una terza mano a quelle dei precedenti autori. D’altro canto la funzione del divulgatore non è da considerare meno degna: io me ne approprio, consegnando qui un’esatta trascrizione, senza attribuirmi i meriti della stesura.

* Il racconto IL QUADERNO è stato il primo classificato del Premio Giallocarta “Pina Vallesi” 16.ma edizione (2019).

NOTA BIOGRAFICA:

*Leonardo Lavacchi – pensionato, lessicografo, grammatico e traduttore (per ex professione), letterato (per passione), narratore (per ossessione). È autore di romanzi e racconti poco letti. Ciò che pretende da un racconto, al limite anche da un romanzo, è che sia degna cornice di qualche bella frase.