“Alesia ed i suoi compagni di viaggio” accolgono nella rubrica settimanale l’interessante contributo degli amici Leonardo e Alberto
Fu quasi per caso la partenza, un’offerta allettante di lavoro il lecito movente, breve il tragitto e breve la durata prefissati, e siccome mai avrebbe voluto lasciarsi alle spalle il frutto del suo costruire, se avesse immaginato un seguito diverso dal rientro sollecito, il viaggio non avrebbe nemmeno avuto inizio. Invece poi si prolungava, si prolungava, in avventure nelle quali profuse e tempo e seme e sogni ed energie, stranamente senza nostalgia, talché se al principio gli appariva inconcepibile un’assenza prolungata, ogni giorno di più gli era difficile figurarsi il ritorno. Né mai seppe identificare la forza oscura e cieca che lo costringeva nell’andare, senza fretta eppure senza pausa, e le soste frequenti non erano appieno un arrestarsi, ma un riprendere slancio, come in una stazione di servizio il combustibile.
Si chiedeva invero se stesse conferendo alla vita un senso, se l’inquieto peregrinare rappresentasse una condizione eccelsa, un fiero volo a spaziare sull’umano gregge, e al tempo stesso dubitava che fosse sigillo d’eccellenza un movimento coatto che non era lui a suscitare e nel quale piuttosto era trascinato e travolto, come da sempre è incerta l’assegnazione dei valori d’eroicità, essendone privilegiata a volte la capacità di assecondare il proprio destino, a volte quella di opporglisi e contrastarlo.
Quando il figlio maggiore fu a raggiungerlo, senza niente chiedere ma sottintendendo delle precise aspettative (sue, della madre e dei fratelli) era già tardi, non soltanto per arrestare la marcia ed imprimere al movimento un verso opposto che a ritroso nel loro abbraccio lo riconducesse, ma pure per contribuire, con finanze ormai già dissanguate, al loro sostentamento. Ed anche in questo era rovello, giacché se sussistevano, come era innegabile, suoi precisi impegni e responsabilità, restava il dubbio sull’essenza del dovere: verso gli altri che da lui dipendevano o verso se stesso in primis, anche a costo di ignorare ciò che quegli altri a buon diritto rivendicavano.
La risposta, al pari di quelle che le precedenti questioni esigevano, non sarebbe servita a determinare il suo comportamento, sul quale non aveva più il potere di influire, bensì a valutarlo ed acquietare una coscienza instabile e disagevole. Qual barca che il timone ha perso e naviga laddove i marosi e le correnti e il vento la vogliono condurre, non senza che l’equipaggio continui ad interrogarsi su quale sarebbe la rotta preferibile, quella che menerebbe al porto di salvazione e che avendone i mezzi cercherebbero di imporre al natante, così lui derivava tormentandosi con quesiti sterili. Eppoi i marosi e le correnti e il vento si placano per esaurimento della furia che li alimenta, e un remo basta, non certo per intraprendere nuove e perigliose crociere, ma sì per raggiungere il riparo più vicino: allo stesso modo si estingueva con gli anni la passione che tenace lo spronava, e gli restava appena un soffio di vitalità, quanto bastava per approdare a capo chino al focolare.
Vi fu benignamente, seppure con freddezza, accolto, dacché il laccio coniugale, sacro laccio, non infransero fuga ed abbandono. Ma lui non v’era in spirito. Col perso sguardo fisso alla parete, mirar sembrava altrove, a più remoti lidi ove tornare quando lo consentissero le riacquistate forze. Oppure mai.
SEMAFORI
Che un ritardo di cinque minuti alla partenza potesse moltiplicarsi, per chi al primo mattino di un giorno lavorativo pretendeva di introdursi nella città dalla periferia, per tre o quattro o perfino sfiorare all’arrivo la mezz’ora era nozione certa, ormai da tempo appresa e assimilata. Ma ciò che suggeriscono virtute e conoscenza avversa la pigrizia, o un meno colpevole indulgere a molle rilassamento, a trasognato indugio che solo l’orologio del cruscotto svela impietoso quando già rimediabile non è. Ciò lui constatava quando, ormai assuefatto alle snervanti attese fra un semaforo e l’altro, lasciava la riva sinistra dell’Arno percorrendone il ponte che lo traduceva verso piazza Beccaria. Lei era invece in anticipo, ma pedalava rapida per borgo La Croce, con la radiosa disinvoltura di chi si dirige al posto di lavoro dove un collega recentemente aggregato sembra disposto a tributarle delle attenzioni, ovviamente innocenti, ormai rare in ambito coniugale.
Fu necessaria quella concomitanza di anticipo e ritardo acché quei due, che mai altrimenti si sarebbero incontrati, venissero a coincidere sul terreno il cui accesso era regolato da un semaforo. Lui lo vide al di sopra dei tettucci, quel semaforo, che da verde e consenziente del varco alle auto, mutava al giallo senza che per ciò si arrestassero quelli che lo precedevano, e che forse nemmeno a lui avrebbe negato il transito. Lei, per quotidiana frequentazione, di quel semaforo aveva scoperto il ritmo astruso, e sapeva che se col verde avesse attraversato lenta il tratto discendente del viale e lenta avesse penetrato l’arco, avrebbe trovato all’altro lato l’omino verde lampeggiante ad affrancarle il passo risoluto.
Fu un istante, uno di quei momenti nei quali tutto si decide, tali da indurre cupi riflessioni sul destino oscuro, sulla vacuità di ogni certezza appesa a tenue filo. Lui, sul punto di accelerare, frenò per arrestarsi sulla linea bianca e veder sfrecciare davanti al cofano, quasi a sfiorarlo, una bicicletta, dei colori, un sorriso che per molti giorni ancora avrebbe portato con sé.
TRAGITTI
“Onde frangenti in spuma rumorosa, eccomi. Dolce al largo ondeggiar come di culla, fra breve.”
Cantava Mario nell’affrontare le ultime curve declinanti verso Porto S. Stefano, da dove è ammirevole l’offerta del promontorio e del mare che si incurva a infrangersi sugli scogli, e dell’ampia distesa fra la punta dell’Argentario e Talamone, piatta nella lontananza, esultando per tanta magnificenza devolutagli e per la vicinanza di lei che lo stava aspettando a qualche chilometro di distanza, a poche miglia marine di traversata, e già il traghetto stava scaldando i motori, probabilmente.
“Thalatta, thalatta,” si sorprese a mormorare, senza sapere una parola di greco, ma citando da un romanzo che pochi giorni prima aveva iniziato a leggere e che aveva portato con sé per compagno in quei giorni di vacanza. Si trattava invero di una lettura poco agevole, ma lui era convinto della necessità, soprattutto per chi avendo orientato i propri studi verso il settore tecnico-scientifico aveva trascurato il ramo umanistico del sapere, di conoscere quelle opere che, per quanto moderne e attuali, si possono ormai considerare dei classici e citando le quali è possibile fare sfoggio in ogni occasione di una solida cultura e di una notevole elasticità mentale. Thalatta thalatta, dunque, e un rapido sguardo all’orologio per constatare che erano le nove e mancava più di mezz’ora alla partenza del battello, giusto il tempo di fare il biglietto e di bere un caffè al bar del Sub prima di imbarcarsi. Sennonché, giunto sul piazzale di sosta, ebbe la sorpresa di trovare il posteggio tanto stipato da costringerlo a lasciare l’automobile nell’unico spazio libero, delimitato però da linee gialle invece che bianche, con un disagio che ridimensionava l’iniziale baldanza e non derivava tanto dal pericolo di un’eventuale multa o rimozione, improbabili per uno stazionamento di pochi minuti e con l’auto bene in vista, quanto dal trovarsi in una situazione diversa dall’immagine prefiguratasi. Non migliorarono il suo stato d’animo la visione della lunga fila davanti alla biglietteria della Navigazione Tirrena, né il lento avvicinamento via via che la coda defluiva, né, quando ormai restavano poche persone fra lui e lo sportello, la voce dal marcato accento straniero dell’impiegata che rendeva noto l’esaurimento dei posti per le auto. C’era poco da fare: poteva parcheggiare in modo regolare, ora che i fortunati, o previdenti, possessori di biglietto imbarcavano le auto sgombrando il piazzale, e prendere il sospirato caffè al bar del Sub, dato che fino alle cinque del pomeriggio un altro traghetto non sarebbe partito. Non sapeva però capacitarsi del brutto tiro che il destino aveva voluto giocargli, né poteva evitare di chiedersi se non fosse stato prevedibile che a ridosso delle festività pasquali una massa notevole di turisti si sarebbe precipitata sull’isola e opportuno alzarsi un’ora prima per giungere davanti alla biglietteria prima che fossero esauriti i posti, con la sgradevole conclusione che non fosse da attribuire tutta al destino la responsabilità dell’imprevisto. Senza esagerare però con i sensi di colpa, perché bisognava dire che in tutti i suoi viaggi al Giglio, e sì che erano stati frequenti negli ultimi anni e in ogni epoca dell’anno, non era mai incappato in un simile affollamento.
Dopo il caffè e una sigaretta, si ritrovò, quasi senza scopo, di nuovo in coda: dalla biglietteria vedeva il molo, il fumo uscire dai fumaioli della nave, la passerella che veniva ritirata e il portellone alzato, la nave staccarsi placida dalla banchina e dirigersi verso l’imboccatura del porto e mentre scemavano piano piano le persone che lo precedevano, udiva l’impiegata, la stessa straniera, spiegare che i posti per le macchine erano esauriti anche per la corsa delle cinque, che si poteva, è vero, prenotare con riserva, per il caso che qualche viaggiatore non si presentasse, ma già c’erano state prenotazioni di quel tipo e l’esito era incerto. Ma perché dunque non ci aveva pensato subito? Quel caffè era davvero tanto urgente? Sembrava comunque che una maggiore solerzia sarebbe servita a poco e che i posti fossero esauriti chissà da quando. Con passo lento e strascicato si incamminò verso il molo, riprendendo il suo dialogo con il destino e riflettendo sulle avversità che da questo ci sono somministrate, a cominciare dai contrattempi insignificanti che si sormontano con una spallucciata per finire con le sciagure di tutt’altro rilievo che condizionano una vita intera. Ciò che gli stava capitando, bisognava ammetterlo, occupava in questa scala gerarchica un gradino piuttosto basso, ma tale evidenza non lo esimeva dal chiedersi se fosse possibile attribuirvi un significato, ben sapendo però quanto sarebbero approssimative e non verificabili le speculazioni che tale significato tendessero a identificare se confrontate con le formule matematiche che quotidianamente maneggiava. E che bizzarro compito dunque il breve tragitto dell’uomo sulla terra, spesso soggetto ad afflizioni delle quali non ha neppure la speranza di conoscere la ragione. Eppure già questi pensieri, le meditazioni astratte provocate dal contrattempo, il porsi domande che non avrebbero trovato risposta, sortivano l’effetto, per il loro carattere generalizzante, di relegare le singole avversità al livello inferiore degli eventi specifici e di permettere all’uomo di elevarsi su di esse. Giunto sulla punta del molo, dove tre direzioni sono precluse dall’acqua, non gli restava che tornare indietro, ma già si sentiva abbastanza rinfrancato da soffermarsi a osservare con curiosità un vecchio e un bambino che seduti sul bordo, il braccio teso a calare la lenza nel sottostante liquido torbido, fiduciosi attendevano un cenno di vita dal mare (non c’erano pesci commestibili lì dentro al porto, spiegò, interrogato, il vecchio, ma loro pescavano per il gatto che infatti stava lì sonnecchiando, esso pure fiducioso). Poi, improvvisamente animato da nuova energia, Mario fu pronto ad osare in nuove alternative. Era davvero necessaria l’auto al Giglio, oppure lasciandola sul continente avrebbe sperimentato una vacanza inusuale? Lunghe passeggiate, reale contatto con la natura, le insenature meno accessibili, i boschi in alto di solito ignorati dal Fenaio a Capel Rosso, in definitiva una simpatica avventura che di sicuro anche lei, vincendo quella sua pigrizia cronica, avrebbe affrontato di buon grado. Ah, se non andava errato un aliscafo doveva salpare di lì a poco e quindi bisognava correre senza indugi verso la biglietteria. Lì davanti stazionavano oziose poche persone che gli cedettero il passo fino allo sportello dove il bigliettaio, questa volta locale e sonnolento, gli spiegò che erano esauriti i posti per la corsa delle undici e mezzo, ma ce n’era una più tardi e su quella avrebbe senz’altro trovato posto. Però il regolamento non consentiva che si rilasciassero biglietti per la corsa successiva prima che l’aliscafo uscisse dal porto, e se poteva sembrare assurdo non era lui che lo aveva deciso e non poteva farci niente. Ma di cosa si preoccupava? Che si presentasse lì alle undici e mezzo e avrebbe avuto il suo biglietto.
Si ritrovò di nuovo sul molo, con differenti meditazioni in un cammino usato. Dapprima la tacita invettiva contro le strutture locali, operanti in evidente assenza di spirito organizzativo e senso logico, che invece di promuovere e favorire l’afflusso di turisti verso l’isola, sembravano mirare a dissuadere i potenziali fruitori di quelle splendide bellezze naturali. Le contrarietà non erano però tali da ottundere la lucidità del suo giudizio, per cui dovette ammettere, sia pure a malincuore, che se dei mezzi di comunicazione concepiti con criteri moderni di efficienza ne migliorassero l’accessibilità masse di turisti vi si riverserebbero, e allora addio splendide bellezze naturali, addio scarsa frequentazione che, perlomeno in certe epoche dell’anno, costituiva una delle principali attrattive dell’isola. Poi sopravvenne un’ulteriore considerazione che lo riguardava più da vicino: una maggior prontezza di riflessi gli avrebbe permesso di scegliere subito la soluzione della vacanza senza l’auto, di imbarcarsi sul traghetto che aveva visto partire e di essere già a quell’ora sull’isola, e lei fra le sue braccia, forse un po’ delusa all’inizio, ma presto convinta della necessità e della convenienza della sua scelta. A quel punto però era inutile recriminare contro l’Ente Turismo e contro se stesso, e tanto valeva tornare al bar del Sub, sedersi tranquillo a un tavolino, bersi un altro caffè e aspettare quanto fosse necessario.
Al tavolo vicino era seduto un uomo alto, di età indefinibile ma senza dubbio più vecchio di lui, la cui fisionomia gli era diventata familiare poiché lo aveva incrociato varie volte nel corso della mattinata lì al bar, davanti alla biglietteria, sul molo. Del resto i lunghi capelli grigi raccolti in una coda e i tratti marcati del volto nel quale spiccavano i baffi cespugliosi ne facevano una figura che non poteva passare inosservata. Mario pensò che questo continuo incontrarsi fosse dovuto al comune calvario, all’essersi scontrati con analoghe difficoltà di traghettamento, ipotesi suffragata dalla constatazione che l’altro lo osservava con insistenza, forse cercando solidarietà, tanto che parlarsi divenne inevitabile, quali due naufraghi sullo stesso relitto, o due dispersi che nel deserto cercano con disperazione una medesima pista cancellata dalla sabbia.
“È diventato faticoso raggiungere il Giglio,” disse Mario tanto per avviare la conversazione, ma la replica dell’altro lo lasciò di stucco.
“Immagino che avrà dei buoni motivi per non andarci.”
“Ho degli ottimi motivi per andarci, sono qui apposta, ma non ci sono ancora riuscito,” replicò sorridendo non appena ebbe superato lo stupore. Anche l’uomo sorrise, ma senza allegria, e lo guardò dritto negli occhi, quasi dovesse sincerarsi di avere davanti a sé l’interlocutore giusto; poi cominciò a parlare con fare pacato e indulgente.
“Io pensavo lo stesso, all’inizio, e inveivo contro queste persone così disorganizzate che rendono tutto complicato. Però le navi sono piene di coloro che attraversano mentre io sono ancora qui. Come non interrogarsi sulla ragione di questa improvvisa incapacità? E come non chiedersi se davvero esista una precisa volontà di raggiungere l’isola o se dei motivi più o meno inconsci, un desiderio contrastante, non rendano preferibile restare su questa sponda? Un rapido esame di coscienza è bastato affinché mi rendessi conto che in realtà temo molto le delusioni che là potrebbero attendermi, dall’isola e dalle persone che vi incontrerei. E badi bene, le delusioni peggiori, lei lo saprà, non sarebbero provocate dallo scoprire che l’isola o le persone divergono dall’idea che ce ne siamo fatti: è una possibilità che fa parte del gioco e va accettata. Ciò che spaventa è la prospettiva di trovare che tutto è pari alle nostre aspettative senza trarne il piacere sperato. Quella è la vera tragedia, il cui timore crea il desiderio contrastante. Lei mi dirà che una volta raggiunta questa consapevolezza la conclusione dovrebbe essere automatica e bisognerebbe decidersi a tornare a casa, o ad andare da qualsiasi altra parte. È proprio ciò che mi sto dicendo da solo, ma c’è qualcosa che mi impedisce di farlo. Forse lei potrebbe riuscirci.”
A seguito di quella stravagante tirata Mario venne a trovarsi, allo stesso modo che sempre gli accadeva in presenza di persone della cui sanità mentale si poteva dubitare, in uno stato di disagio che gli impedì di ribattere con tempestività, né avrebbe saputo farlo senza che le sue parole risultassero sgradevoli o addirittura offensive. Eppoi aveva visto che l’aliscafo ormeggiato alla banchina aveva cominciato a imbarcare i passeggeri: evitò ogni commento, si limitò a un breve cenno di saluto e si alzò per dirigersi verso la biglietteria, passando prima dal banco per pagare il caffè. Ma che strani individui si possono incontrare! Uno non riesce a imbarcarsi e per non prendere coscienza della propria inettitudine escogita la trovata dei desideri contrastanti. Ma questa è la favola della volpe e l’uva! È vero che tutti, quando ci avviamo a realizzare un progetto, perfino il più promettente, rischiamo di andare incontro a delle delusioni, e lui stesso non aveva certo la garanzia di un buon esito del viaggio. Negli ultimi tempi la convivenza con la donna che lo attendeva sull’isola non era stata facile e la loro relazione mostrava spesso dei chiari sintomi di stanchezza. Non per nulla lei, invece di aspettarlo, aveva preferito partire da sola, quando ancora gli impegni lavorativi non gli permettevano di lasciare la città e lui aveva accolto quella decisione quasi con sollievo. Volendo, proprio per non trascurare nessuna ipotesi, il grosso e impegnativo volume che aveva portato con sé poteva essere considerato un salvagente per il caso che durante il soggiorno subentrasse la noia. E invece no! Avevano organizzato quella vacanza proprio per stimolare il reciproco interesse e ristabilire in tal modo l’armonia smarrita. Prima di tutto bisognava crederci, senza lasciarsi influenzare da banali impedimenti logistici. Lui poi, aveva imparato nella sua professione che quando una turbina non funziona bisogna cercare nel meccanismo qualcosa che si è inceppato, e sempre si trova, e non è mai un desiderio contrastante, ci mancherebbe. Ma glielo avrebbe fatto vedere a quel tipo, andando da lui con il biglietto in mano, anzi con due: ne avrebbe comprato uno in più per regalarglielo.
Quando raggiunse la coda, composta sorprendentemente da poche persone, l’individuo, che doveva aver rinunciato infine alle sue ubbie per decidersi a compiere i passi necessari, era già lì. Mario gli sorrise per esprimere il proprio compiacimento, ma l’altro gli fece un mesto cenno con la testa indicandogli lo sportello, dove l’impiegato stava spiegando che era proprio dispiaciuto, ma cosa poteva farci se la sua collega, una nuova, straniera per giunta, non aveva capito come funzionavano lì le cose e prima che l’aliscafo partisse aveva venduto i biglietti per la corsa seguente fino a esaurirne i posti, e lui no, lui non poteva rilasciare i biglietti per quella dopo ancora, perché il regolamento non lo consentiva. Quanto alla notizia dell’avaria sofferta dal traghetto, non si era avuta conferma e per quanto lui ne sapeva la corsa delle cinque ci sarebbe stata.
Leonardo Lavacchi
NOTE BIOGRAFICHE:
*Leonardo Lavacchi
pensionato, lessicografo, grammatico e traduttore (per ex professione), letterato (per passione), narratore (per ossessione). È autore di romanzi e racconti poco letti. Ciò che pretende da un racconto, al limite anche da un romanzo, è che sia degna cornice di qualche bella frase.
*Alberto Lavacchi Nicolás
diplomato al liceo artistico Leon Battista Alberti, coltiva l’hobby del disegno e della scultura ed esercita
l’attività di oggettistica in legno (www.instagram.com/albertolavacchi)