Gravidanza, parto e battesimo nel mondo contadino e artigianale molisano
Anticamente la donna restava gravida quasi immediatamente dopo il matrimonio. Nel momento in cui aveva la certezza di essere in stato interessante, informandone per prima la madre, indossava una catena d’oro al cui terminale pendeva un amuleto o una pietra dura colorata per tenere lontano da lei il malocchio ed il pericolo di un aborto. Questo oggetto lo portava addosso fino al giorno del parto. Naturalmente lo stato di gravidanza esimeva la futura mamma, soprattutto se era contadina o svolgeva attività artigianali o operaie, dallo svolgere lavori pesanti per non compromettere il suo stato di salute.
La femména préna
La notizia della futura maternità era accolta con grande gioia dal marito e dall’intera parentela perché rappresentava il coronamento del loro sogno d’amore ed anche perché era un messaggio che si dava alla comunità della fertilità della coppia. Guai se la donna si rivelava sterile. Era una disgrazia pari, se non superiore, ad un lutto. Su questo argomento, fonti orali hanno riferito che la donna, non in grado di garantire una discendenza al marito, spesso veniva chiacchierata e guardata con circospezione da tutti perché si pensava fosse posseduta dal demonio. Solo il marito riusciva a proteggerla a malapena dalle maldicenze, anche se accettava molto a malincuore la cruda realtà di non poter avere da lei un erede. Nel caso, poi, di una morte improvvisa o di una malattia esiziale del consorte, la gente si convinceva ancora di più della negatività di quella povera sventurata, finendo per additarla addirittura come una strega. Come si vede quelli erano altri tempi che fanno sorridere se paragonati ai nostri, tuttavia inducono a riflettere sulla difficile condizione di sposa, di madre e di vedova della donna di una volta. Convincimenti, legati alla superstizione, erano quelli che attribuivano alla donna gravida delle negatività come quella di far seccare le piante se le toccava, di far nascere il figlio sgraziato se fissava troppo a lungo una persona brutta, gracile o deforme, di fare attenzione a non accavallare le gambe, quando si sedeva, per evitare che il piccolo potesse soffocare con il cordone ombelicale.
La donna in stato interessante era circondata da mille attenzioni da parte del marito, della madre e della suocera. Anche nelle case dove c’era meno benessere, si cercava di esaudire le sue richieste, perché temevano che avrebbe potuto abortire qualora non si fosse stato in grado di accontentarla. Il brodo di piccione, ritenuto una prelibatezza per i tempi, era uno degli alimenti di cui si nutriva chi aspettava un bambino per aumentare il latte con cui avrebbe alimentato il nascituro. Nella sua dieta non mancavano mai le primizie di stagione e, quando non c’erano, si faceva di tutto per procurarle. La puerpera veniva accontentata in ogni suo desiderio perché si credeva che, se le si fosse fatto mancare quello che cercava, il bambino sarebbe nato con delle macchie sulla pelle (voglie) nello stesso posto in cui la mamma si stava toccando nel momento della sua richiesta. Nella credenza popolare, queste macchie avrebbero assunto la stessa forma del cibo o della cosa desiderata, come segno tangibile delle sue voglie inappagate. Ad esempio, se il bambino nasceva con delle macchie rosse sul corpo si pensava che la madre non era stata accontentata nel desiderio di bere del vino rosso; i nei erano la testimonianza della voglia di mangiare lenticchie; mentre, se nasceva un neonato brutto o deforme, la colpa era attribuita anche ad un grande spavento subito dalla mamma durante il periodo della gravidanza. Per scongiurare questa evenienza, nel caso in cui non si era in grado di soddisfare le sue richieste, la donna gravida doveva avere l’accortezza di toccare il suolo per scaricare su di esso gli influssi negativi derivanti dal mancato soddisfacimento dei suoi desideri. Questa superstizione non solo era viva nel ceto medio-basso, ma anche nelle famiglie dell’alta borghesia ed in quelle della nobiltà.
Durante la gestazione i famigliari e le amicizie più vicine alla coppia si divertivano a fare previsioni sul sesso del nascituro. Al riguardo, esiste tutta una casistica fantasiosa su questa specie di pronostico augurale. Alcuni vaticinavano la nascita di un maschio se l’addome della puerpera era molto pronunciato e rotondeggiante o se sul viso aveva delle macchie scure; altri, invece, pensavano all’arrivo di una femmina se la pancia terminava a punta oppure se aveva il viso senza macchie scure. È curioso notare come gli abitanti della Lombardia e dell’Emilia, ma credo anche di altre regioni italiane, pensassero più o meno la stessa cosa. Un loro detto così recitava:
Quand la panza l’è guzza, cussin e gucia; quand l’è larga al fianchett, nasse un bel maschiett.
A Bologna, invece, dicevano: Panza agozza en porta scofia. Panza tònda, l’è una fèmna.
C’era anche chi credeva di indovinare il sesso in base alle fasi della luna, calante (maschio) o nascente (femmina). Addirittura molte persone lo ricollegavano al modo di scendere dal letto della futura mamma. Se metteva a terra prima il piede sinistro si trattava di un maschio, se, invece, poggiava quello destro, era una femmina. Se la puerpera era solita dormire sempre sul lato sinistro, si riteneva che avrebbe partorito una femmina; mentre, sarebbe stato maschio, se aveva l’abitudine di dormire sul lato destro. Tanti altri erano i presagi sul sesso del nascituro, anche se erano ipotesi che, il più delle volte, trovavano riscontri positivi nei risultati. Ad Agnone, ad esempio, come riferisce Lucia Amicarelli in Tradizioni popolari di Agnone, il pronostico veniva fatto solitamente così:
“…si pone ad asciugare in luogo molto caldo, quasi sempre alla catena del camino, l’osso del pollo a forma di forcella, che trovasi tra il collo e lo sterno. Quando la forcella è ben secca, due persone ne afferrano le estremità e tirano contemporaneamente, in modo da spezzarla in due parti; se alla parte designata per il pronostico resta attaccato anche l’ingrossamento superiore, nascerà un maschio, in caso contrario nascerà una femmina…”.
Un’altra curiosa credenza locale, diffusa soprattutto nella immediata periferia di Campobasso, riferita nel caso specifico alla prima parola che avrebbe pronunziato il primogenito, riguardava la previsione del sesso del secondo figlio che la donna avrebbe avuto. Infatti, dopo il parto, le donne più anziane erano solite dire alla puerpera: “Sé u prime mutte ca rīce ‘sta criātūra è papà, vò rīce’ ca la seconda criātūra ca nasce è màscule; sé ‘nvece rīce mammà, allora è femména”. Si tratta di un vaticinio molto originale, ma spesso corrispondente al vero.
La donna in stato interessante, che ascoltava con apprensione questi responsi, desiderava innanzi tutto due cose: la nascita di una creatura sana ma che fosse maschio, soprattutto per dare continuità alla discendenza (assécurà’ la spècie) e arricchire la casa di nuove braccia lavorative che in seguito avrebbero contribuito fattivamente all’economia della casa. L’arrivo di una femmina, in molte famiglie, in particolar maniera in quelle contadine ed artigiane, era una specie di disgrazia, prima perché non reiterava il cognome della famiglia, poi perché non era ritenuta adatta ai lavori pesanti dei campi o a quelli artigianali, anche se, poi, alla fine aveva compiti molto più gravosi del marito, come quelli di gestire la vita di casa, di provvedere all’istruzione dei figli, di accudire il bestiame, nel caso di una famiglia contadina.
Alla donna che aspettava un figlio non le si faceva fare nessun lavoro di casa per non affaticarla durante il periodo della gestazione. Una curiosa superstizione, tipicamente contadina, voleva che essa non dovesse toccare la carne di maiale, durante la sua lavorazione, perché si pensava che potesse andare a male. L’unica attività che le si consentiva era quella di preparare il corredo per la sua creatura. Erano pochi capi di lana lavorati con i ferri, di colore celeste, auspicando la nascita di un maschio, rosa se fosse nata una femmina. Si trattava di cuffiette, golfini, calzerotti, bavette e copertine per la culla.
Il parto
Questo importante momento avveniva quasi sempre in casa alla presenza della mamma della ragazza, della suocera e della levatrice (mammāra e/o vammāra nella trascrizione più arcaica del lemma).
La mammāra
Quando la partoriente veniva presa dalle doglie era tutto un correre per casa, tra fasce, lenzuola e bacinelle di acqua calda. In quei momenti così delicati, ed al tempo stesso commoventi, l’uomo se ne restava in disparte nella trepida attesa di sentire il primo vagito del figlio che stava per nascere. Tutto avveniva con maestria di movimenti e di coordinazione. Ogni persona che dava una mano sapeva, per inveterata tradizione, quali erano i suoi compiti, cosicché la levatrice vedeva alleviate di molto le sue operazioni. Si ricorreva al parto cesareo solo in rarissime occasioni. Il parto naturale avvenuto in casa era l’operazione più frequente a cui ci si affidava, cosicché non era raro che un lieto evento potesse complicarsi e tramutarsi in uno luttuoso, con la morte del nascituro o della madre. La superstizione voleva che, per allontanare questo pericolo, si tenessero accese delle candele votive in onore di san t’Anna, protettrice delle partorienti.
Dopo la nascita, il bambino veniva lavato in una piccola conca contenente acqua riscaldata al fuoco del camino in cui i genitori ed i parenti più stretti gettavano delle monete in segno augurale. Testimonianze orali hanno riferito che, in alcune case coloniche del circondario di Campobasso, vi fosse l’antica abitudine di fargli fare il primo bagnetto nel vino (?) che, nella credenza popolare, serviva a rinvigorire il suo corpicino. Dopo questo “rito”, al neonato si faceva indossare sulla pelle nuda una camiciola di cotone bianco con allacciatura dietro alle spalle (cacciāmaniēlle) e gli indumenti confezionati dalla madre. Prima di farlo attaccare al seno per la prima poppata, gli venivano tagliate le unghie avendo l’accortezza di fargli tenere nelle manine una piccola moneta d’oro come segno scaramantico. Alle femminucce si bucavano i lobi delle orecchie affinché potesse indossare i piccoli cerchietti d’oro, dono della madrina o del padrino. La suocera, nel frattempo, preparava il classico brodo di piccione o, in alternativa, di gallina, da far bere alla nuora. Per il suo intervento la levatrice veniva remunerata con somme di danaro proporzionate alle finanze della famiglia oppure con alcune derrate alimentari, solitamente polli, uova, zucchero e caffè. Appena dopo il parto, pare che alcune famiglie avessero l’abitudine, in segno scaramantico, di fare indossare al piccolo degli oggetti di corallo, di appuntare una forbice dietro l’uscio di casa e di mettere due coltelli incrociati sotto il suo materassino per tenerlo lontano da eventuali influssi negativi. Questa ritualità era mantenuta fino al giorno del battesimo.
Nei giorni successivi al lieto evento, la mamma riceveva le visite di amici e parenti che, per l’occasione, portavano in dono zucchero, caffè, uova e piccoli indumenti di lana per il neonato. La suocera offriva loro dei dolci e del caffè oppure del rosolio preparato in casa.
La cunnéra
La persona che battezzava il bambino (sangiuānne) regalava al piccolo, come primo pensiero, un cesto contenente indumenti di lana o di cotone, della pastina glutinata per alimentarlo ed il vestito che doveva indossare il giorno del battesimo. Tra gli indumenti vi erano alcune camiciole intime di cotone e le fasce (fasciātūre) con cui gli si avvolgevano ben strette le gambe, nei primi mesi di vita, per non farle storcere. La culla, invece, veniva regalata o da una persona benestante molto vicina alla famiglia oppure si faceva costruire da un falegname amico di famiglia. Una curiosa usanza, mirata allo svezzamento del neonato, era quella di strofinare i capezzoli della madre con del peperoncino.
Il battesimo
Il neonato difficilmente veniva battezzato subito, né lo si faceva il martedì ed il venerdì, giorni ritenuti sfortunati per le sue sorti. Se ciò accadeva, si credeva che un’anima del Purgatorio sarebbe stata lasciata libera per raggiungere il Paradiso. Quasi sempre trascorrevano alcune settimane, se non mesi, prima che ciò avvenisse, soprattutto durante la bella stagione, periodo in cui i genitori, se contadini, erano assorbiti totalmente dal lavoro. Per questo motivo, adempievano al rito del battesimo nei mesi invernali quando avevano più tempo libero dal lavoro a causa del cattivo tempo
U bbàttézze
Il battesimo era un atto di fede particolarmente avvertito perché, in un periodo in cui la mortalità infantile raggiungeva picchi molto alti, si voleva preservarlo, nel caso di una morte prematura, dal fargli abbandonare la vita terrena senza avergli dato un nome, privandolo, così, della santità che riceveva con il battesimo. I cimiteri di una volta riservavano al loro esterno un settore dove venivano sepolti questi angioletti morti privi del battesimo.
Prim’ancora che il bambino nascesse, i genitori sceglievano sia il nome da dargli, sia il padrino (sangiuānne) che doveva battezzarlo. Nella maggior parte dei casi, le loro attenzioni ricadevano su gente facoltosa o influente, soprattutto per motivi di prestigio. Una famiglia che si imparentava con una persona ritenuta “importante” dalla gente ne guadagnava in considerazione e in aiuti qualora avesse avuto bisogno.
Questo momento così bello e particolare era affrontato nella massima semplicità, senza grossi eccessi. Al rito del battesimo partecipavano i genitori ed i nonni del bambino, il padrino o la madrina e la levatrice. Il nome imposto al primogenito era quello di uno dei nonni paterni (rénnuvà’ la traréziōne); poi, con le successive nascite, si pensava a reiterare anche il nome dei nonni materni. Una curiosità dei tempi era quella di aggiungere, al nome del bambino, altri nomi di parenti, tra cui quello del compare o della comare. La festa si svolgeva a casa ed era molto sobria. Chi se lo poteva permettere preparava un pranzo per gli invitati, altrimenti agli ospiti si offrivano panini, dolci fatti in casa e bicchieri di vino genuino. Il padrino regalava dei soldi ed un orologio, se il battezzato era maschio, una catenina d’oro e gli orecchini se era femmina. La levatrice donava piccoli oggetti d’oro, solitamente una spilla o una medaglietta raffigurante immagini sacre.
Prof. Arnaldo Brunale