La storia de “la promessa di Ekaterina” prende avvio dall’Ospedale della Scala di Siena, presso cui la protagonista ha trovato rifugio dopo essersi sottratta alle grinfie di un padrone violento. Alla Scala Ekaterina si occupa dei bambini abbandonati, i cosiddetti “gittatelli”, e attende di prendere i voti. I suoi piani, però, vengono stravolti dalla voce di “babushka”. Le dice il suo viaggio non può concludersi nell’ospedale senese. La giovane si convince, a seguire il suggerimento e soprattutto si sente pronta a cercare Kóljenka, il figlio che, diversi anni prima, era stata costretta ad abbandonare agli Innocenti di Firenze.
Per le ricerche dei miei romanzi storici, Ekaterina e la promessa di Ekaterina, End edizioni, ho spesso fatto riferimento all’Ospedale degli Innocenti di Firenze e al Santa Maria della Scala di Siena. Si tratta di due istituti molto antichi, il primo è stato progettato dall’architetto Filippo Brunelleschi con decorazioni dei della Robbia e il secondo era nel ‘400 il più importante ospedale in Europa, tanto che vennero per studiarlo da altri paesi. Inoltre ricordiamo i begli affreschi del Pellegrinaio del pittore Lorenzo di Bartolo che ci fanno vedere aspetti della vita dentro l’ospedale. Altri grandi artisti vi lavorarono, come Simone Martini che affrescò il grande ciclo delle Storie della Vergine (oggi perduto), Ambrogio e Pietro Lorenzetti.
Il Santa Maria della Scala è un complesso monumentale situato nel cuore della città di Siena, in cima alla collina. La posizione ne ha determinato anche la particolarissima configurazione, su vari livelli, digradanti da piazza Duomo fino alla retrostante vallata, in un intrico di scale ed edifici aggiunti successivamente. Sorto lungo la via Francigena di fronte al magnifico Duomo, è oggi un’importante complesso museale che raccoglie opere d’arte di grande valore, ma fino agli anni 80 del secolo scorso funzionava ancora per gli ammalati. Fu uno dei primi esempi europei di ricovero e ospedale per pellegrini e per i poveri ma soprattutto per i bambini abbandonati.
Al livello tre si trova la Corticella, un piccolo cortile per la cisterna ed una sorta di collegamento che segnava la fine della strada coperta. Da qui si possono seguire numerosi tunnel che conducono al fienile medievale e al cosiddetto “carnaio”, dove spesso finivano i gettatelli che per la maggior parte non superavano l’anno di età.
“Venivano di notte a deporre le creature all’ingresso sulla Pila, quasi fosse un’acquasantiera che li innalzava al cielo e forse questo alleggeriva i genitori del peso dell’abbandono. In realtà spesso li rassicurava quella conca sopraelevata su una colonna ritorta, cosicché i figli fossero protetti dagli animali e dal fango. Due fanciulli più grandicelli furono lasciati lì accanto, il piccolo legato con una corda alle colonne della Pila. Il frate si apprestava a scrivere scrupolosamente sul libro degli arrivi l’ora e i pochi indumenti, per lo più pezze di lana o di lino, gonnelle, ma soprattutto stracci. Una bambina recava un soggolo da monaca, segno che proveniva da un convento. Chi li depositava aveva fretta di fuggire e se scoperto non dava che poche informazioni, -il padre è povero, la mamma è morta, abbiate cura di lei, torneranno i parenti, i nonni, lo zio, appena potranno-. Spesso recavano avvolti nelle fasce delle letteruzze, scrittoline, appuntate, infilate con del filo e messe al collo. Quanti nomi! Il frate chiedeva a Caterina di scrivere sul libro dei bambini e poi apponeva la sua firma. Pasquina Domenica, Barnaba Giovanni, Ulivo, Ulivetta, Gimignano, Verdiana. Questi nomi risuonano. Di solito era quello del Santo del giorno. Tante bambine con il primo nome Caterina, quello della santa, che aveva alloggiato lì nello Spedale.
Spesso i piccoli recavano nella scritta “non è stato battezzato”, quasi che i genitori si preoccupassero più del battesimo che dell’effettivo abbandono. La paura che le loro anime fossero costrette a vagare nell’aldilà terrorizzava i parenti, mentre che vagassero in questo mondo non era affar loro. “Agata Piera fu lasciata nuda nella Pila con soltanto un po’ di sale in una carta sul petto, senza preoccuparsi di aggiungere il nome. Questo episodio colpì in particolare Ekaterina, che si domandava come fosse possibile non dare un nome a una creatura nata da donna. Lei ci aveva pensato al suo bambino mentre glielo strappavano via con forza. L’aveva blaterato nella febbre del parto, si ricordava. Non si può lasciar un essere umano senza dargli il nome. Dio aveva creato il mondo ma Adamo aveva avuto il compito di dare un nome alle cose. Anche agli animali si dà un nome! L’unica cosa che contava sembrava invece il battesimo. Un altro bambino le era rimasto nel cuore. Antonio, di tre anni, lasciato vagare in balia del freddo e del vuoto per due giorni e due notti per i campi, scalzo e con solo una gonnelluccia di romagnuolo trista, dopo essere stato picchiato con forza. Il frate di suo pugno aveva vergato “si vide una gota e la fronte tutte percosse e al vero non ho potuto pregare Dio e la Madonna” aveva dovuto aggiungere, a causa della rabbia che aveva provato di fronte a quel povero corpicino, smarrito che si nascondeva come una bestia ferita. Caterina lo lavò con acqua calda profumata e cercò di rassicuralo. Aveva fame, gli venne dato del latte di capra a piccoli sorsi. Il latte di capra era tenuto da conto per i neonati, finché non fosse stata trovata una balia in campagna. Quanti gettatelli aveva visti riportati dalle balie, avvolti in un asciugatoio, con la faccia cerea e gli occhi chiusi. Il frate annotava sul libro. “Morì perché non succhiava la poppa… morì nel sonno… morì perché era stato male accudito” Ma tutti erano sepolti lì nel Carnaio, sotto il grande ospedale. Matteo Romolo, mandato ignudo e come una bestia giunse nero come un monachino, per il freddo ma forse anche per i patimenti del parto, un’altra gialla col bellico sciolto per più ore”. Chissà le sofferenze che quelle povere donne avevano patito: lavorare fino all’ultimo nei campi, poco da mangiare e finanche botte dai mariti o dai padri. Qualcuna aveva partorito da sola, nascondendo sotto le vesti la pancia, ragazze giovanissime, tante schiave, perché nello scrittolino era riportato il nome e la provenienza”. Ho voluto restituire le parole scritte nei vari documenti per poter dare una storia a questi poveri gettatelli, l’aggettivo che ci indica la loro triste vicenda.
A Firenze invece si denominavano “Nocentini”, dal nome dell’ospedale famoso per la sua classicità rinascimentale. Lo Spedale degli Innocenti, in tutta la sua magnificenza, può essere considerato l’emblema di una civiltà che, dato il suo grande impegno per le opere pubbliche, si fece carico in modo efficace della piaga dei fanciulli abbandonati. Fu sì un tempo di violenza estrema, come dimostrano gli esili, i fatti di sangue e le vendette, ma anche di attenzione cristiana per i poveri, per gli infelici e soprattutto i bambini, dato l’altissimo numero di ricoveri, ospedali e luoghi di cura. I bambini accolti venivano allattati, allevati ed educati, i maschi imparavano un mestiere, ma anche a leggere, scrivere e a far di conto. Le femmine a cucire e ricamare, e veniva assegnata loro una dote per sposarsi.
Progettato nel 1419 su commissione dell’Arte della seta, l’Ospedale degli Innocenti fu inaugurato nel 1445. Ancora oggi, seppure in forma diversa dà ricovero a ragazze madri o bambini in attesa di adozione. Al suo interno è contenuto un prezioso archivio con libri che raccolgono i nomi e le particolarità dell’abbandono, non dissimili da quelle che ho descritto per l’ospedale di Siena. All’inizio non c’era una vera e propria ruota, ma una finestrella con un campanello, la finestra era piccola, e quindi si potevano lasciare solo neonati. Spesso le mamme spezzavano una moneta o una medaglia, tenendone per sé un pezzo e l’altro lasciato all’infante, come si vede nei numerosi cassettini che custodiscono questi effetti. Serviva a dimostrare la maternità e così poter riprendere il bambino. Una pia illusione perché pochissimi tornarono alle famiglie d’origine. Era comunque una speranza, come dice Ekaterina la schiava del mio romanzo “Appena il tempo di guardarlo e glielo avevano portato via. Quella medaglietta da ricomporre, l’unico legame che forse li teneva uniti, l’aveva lasciata a Lusanna, che tanto desiderava un figliolo”.
Per la settimana d’azione contro il razzismo si è svolto un itinerario del Progetto Amir (amirproject.com) alla scoperta di un volto meno conosciuto della Firenze dell’epoca. Già nel 1427, 360 donne di origine africana erano giunte dal Portogallo ricercate per lavori domestici o avviate alla prostituzione. Ad onta dell’etica cristiana, Firenze non ha fatto eccezione. Molti gli schiavi presenti a Firenze durante il Rinascimento. A Palazzo Medici Riccardi, nel corteo della famiglia Medici dipinto da Benozzo Gozzoli nella cappella dei Magi, si può vedere bene, la figura di un ”nero”. Non solo: fra Cosimo e Piero, nel corteo, si affaccia anche Carlo, figlio di Cosimo e di una schiava circassa – la cui etnia, insieme ad altre orientali (tartara, slava, russa, rumene, albanese), era stata a lungo consistente fra quelle degli schiavi ”fiorentini”, prima che, con la conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi, nel 1453, la tratta si rivolgesse sull’Africa. Già nel 1427, in ogni caso, secondo il catasto fiorentino, erano presenti a Firenze ben 360 schiave (di cui 2 entrate in casa Medici, 4 nel 1457), ricercate per i lavori domestici, nonché spesso costrette a sottostare ai piaceri sessuali dei padroni. E schiave si trovavano anche in casa del mercante pratese Francesco Datini, che legittimò l’unica figlia e al cui lascito si deve la costruzione dello Ospedale degli Innocenti. Qui, a metà ‘400, furono figli di schiave, obbligate a separarsene dopo il parto, fra il 14 e il 30% dei bambini abbandonati, e qui, nei libri contabili del Fondo Cambini, ricca famiglia di mercanti fiorentini, si scopre la storia di Isabell, Barbera e altre.
Marialuisa Bianchi
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