È il lavatoio pubblico più caro ai campobassani, avendo ispirato da sempre poeti e cantautori, come Lino Tabasso, Turillo Tucci, Tonino Armagno, Franz Paolone, Pietro Di Toro, ecc. La data di costruzione di questo straordinario fontanile, in pietra bianca locale, situato verso il lato ovest della nostra città, subito dopo la via S. Antonio abate, ai piedi dei Monti, probabilmente dovrebbe risalire agli albori del XVII secolo, anche se non si è certi di questa collocazione temporale. Il Nauclerio, ad esempio, così scriveva nel suo Apprezzo della Terra di Campobasso del 1688, suffragando l’esistenza di questo manufatto già in quell’anno: “Vi sono diverse acque sorgenti e fontane perfettissime e precise, la Fontana Vecchia di che se ne serve la maggior parte di detta Terra, quale è verso ponente, distante da detta Terra per un quarto di miglio incirca e della quale anche se ne servono per lavare panni ed abbeverare animali…”. Conosciuta anche con il nome di Carlona (scrittura del 19 giugno 1695 del notaio Giuseppe Pizzoferrato) o Fontana della Pila (Atto del notaio Angelo Monacelli del 19 febbraio 1666).
Il progetto iniziale la vuole suddivisa in tre sezioni ben distinte: una fontana per l’acqua potabile, un abbeveratoio, un lavatoio. Il loro singolo uso era disciplinato da un bando o regolamento compilato dalle autorità cittadine nel 1711 dove, fra l’altro, si ricordava che nel luogo bisognava solo prendere l’acqua per bere o per uso di casa; che gli animali dovevano abbeverarsi solo nell’apposito “beveratoio”, dove, per igiene e per non inquinare l’acqua, alle donne era fatto assoluto divieto di lavare i panni, che dovevano essere lavati, invece, “…nel lavatoio, ch’è il medesimo s’è coverto come tengono li londri con sottotetta de pinci…”; “… che in detto luogo detto lavatoio, per essere separato con muraglie dalli beveratoi e cancellate, che niun huomo ardisca entrarvi o fermarsi vicino la porta, acciò le donne stiano con libertà e non venghino pregiudicate nella pudicitia; sotto la pena di carlini quindeci…”.
Se vi è dubbio sull’anno della sua costruzione, si è certi, invece, delle numerose ristrutturazioni che ha subito negli anni. Una lapide posta sulla facciata del muro di prospetto dedica la Fontana ad Aretusa di Siracusa (Aretusa è un personaggio mitico greco, figlia di Nereo e di Doride. Il dio Alfeo, figlio del dio Oceano, si innamorò di lei spiandola mentre faceva il bagno nuda. Aretusa, però, non accettò le sue attenzioni e fuggì sull’isola di Ortigia nei pressi di Siracusa, dove la dea Artemide la tramutò in fonte. Zeus, commosso dal dolore di Alfeo, lo tramutò in fiume consentendogli, così di percorrere tutto il Peloponneso, di sfociare nello Ionio e di potersi unire alla sua amata Aretusa). La lapide colloca una delle sue prime ristrutturazioni nel Sestile del 1826 (il citato mese sestile nell’antico calendario romano era il sesto mese dell’anno; dopo la riforma giuliana del 45 a.C., venne identificato con l’ottavo mese del nuovo anno solare, chiamato poi agosto). Sulla lapide, scritta in latino, si legge: “FONS RECONSTRUCTUS MENSE SEXTILI A.D. MDCCCXXI – TANDEM URBS TANTALICOS PRIDEM PERPESSA LABORES GAUDE ARETHUSA SUAS NUNC TIBI PRAEBET AQUAS TEMPORA NE REDEANT RURSUS GRAVIORA MAIORUM SIT TIBI CURA MEI. SIT TIBI CURA TUI”. = FONTE RISTRUTTURATA NEL MESE SESTILE DELL’ANNO DEL SIGNORE 1826 – FINALMENTE LA CITTA’ DOPO AVER PATITO PER TANTO TEMPO PER I LAVORI, ARETUSA GIOISCE (PERCHE’) ORA TI OFFRE LE ACQUE. AFFINCHE’ NON RITORNINO COSE (DANNI) PIU’ GRAVI, A TE SIA AFFIDATA LA MIA TUTELA. A ME SIA AFFIDATA LA TUA SALUTE”. Un’altra data, corrispondente al 1791, incisa all’interno dell’arco centrale riporta che la fontana ha subito una ristrutturazione anche prima del 1826. Altri restauri, o solo riparazioni di una certa importanza, sono testimoniati da alcune documentazioni coeve. Ad esempio, il Rogito del 21 marzo 1807, scritto dal notaio Tommaso Cancellario riferisce che “…il campobassano Nicola Ianera “animato da pubblico zelo, ha pensato alla riparazione della pubblica fontana denominata La Fontana Vecchia…”. La Delibera decurionale del 16 gennaio del 1826 del Comune di Campobasso, faceva riferimento anche ad alcuni lavori da effettuarsi nelle “…strade interne ed esterne che sono intransitabili ed indegne di una centrale… nonché alla Fontana che provvede di acque l’intera città…”. Un’altra Delibera decurionale del Comune di Campobasso, datata 22 giugno 1827, rendeva noto il cattivo stato della strada che, da S. Antonio abate, scendeva fin giù alla Fontanavecchia: “…nel mentre per la stessa è obbligata tutta la Città passarvi, per provvedervi alle acque…”. Altri lavori di restauro si sono succeduti nel tempo a partire dal 1837, per finire, appunto, a maggio del 1978.
Si accede al luogo attraverso un cancello ed otto (nove) gradini delimitati da due piccoli muri in leggero pendio nel rispetto del dislivello del suolo. L’intera struttura e la sua pavimentazione sono realizzate con blocchi calcarei lavorati. La parete principale è formata da tre archi a tutto tondo al centro dei quali vi è un cannello metallico per la fuoriuscita dell’acqua incastonato in un concio quadrato lavorato a rilievo. L’acqua viene convogliata nel lavatoio prospiciente alla gradinata di ingresso attraverso una scanalatura granitica che si snoda lungo l’intero perimetro delle pareti. Su queste ultime, una posta alla sinistra e l’altra frontalmente alla facciata principale, si aprono altre bocche in pietra da cui fuoriesce l’acqua per fare il bucato. Lo spazio riservato al lavatoio è coperto con una tettoia inclinata e con embrici in cotto poggianti su sette colonne in pietra e mattoni posizionati fra di loro in maniera armonica e sicura. Al suo interno si trovano le vasche per il bucato, due delle quali erano adibite alla trattazione cinerina (cénnérata) dei panni. Inclinati alle vasche si trovano altrettanti ripiani scanalati in pietra per la strofinatura dei panni (stréculatūra); mentre, nella loro parte iniziale, vi sono delle basole di pietra bianca liscia utilizzate come inginocchiatoi dalle lavandaie.
A questo fontanile, di recente affidato alla cura dell’Associazione no profit “Si può fare” di Campobasso sono legati una miriade di storie d’amore nate nel corso dei decenni e alcuni aneddoti tra cui uno, quello più conosciuto, che si riferisce ad un personaggio vissuto nel XIX secolo, tale Pacchétiēlle, ovvero Pasqualino,noto per le sue ruberie e per gli espedienti disonesti messi in atto per vivere alle spalle della gente. Su di esso sono fiorite varie storielle, non sempre concordi fra di loro e spesso romanzate dalle fonti dirette locali. Si citano solo alcune versioni, probabilmente le più veritiere. Le sue vittime preferite erano le donne che si recavano a Funtanavecchia per lavare i panni e sciorinarli sul prato circostante. Alcune volte esse andavano a ritirarli verso sera inoltrata. In una di queste occasioni Pacchétiélle, approfittando del buio, e nascondendosi dietro una siepe per non farsi vedere, imitò l’ululato del lupo, incutendo loro una grossa paura che scapparono via terrorizzate, lasciando i panni alla mercé della sua razzia. Essendo noto per le ruberie, le donne, quando lo vedevano nei pressi del lavatoio, lo scacciavano in malo modo urlando al suo indirizzo. La famosa frase Va’ a fa’ bbéne(Vai a fare bene), per cui Pacchétiélle è passato alla storia, fu pronunziata da lui, in tono di rimprovero verso se stesso, quando tentò di discolparsi, dalle accuse di furto, con i gendarmi che lo avevano arrestato, attirati dalle urla delle lavandaie, spiegando che si trovava lì solo per aiutarle a piegare i panni e non per depredarle. Egli fu impiccato per avere stuprato un ragazzo e per averne gettato il corpo in un pozzo situato tra via Monforte e via Torino. Anche in quell’occasione Pacchétiélle volle dare prova della sua “ingenua furbizia”. Prima di morire, richiamò il prete che lo aveva confessato da poco, dicendogli: ‘Gnor Rettore, tènghe ra cumbéssarve ‘n’àūtra cósa ca prima nén vé so’ rìtte! V’arécurdate quānne, abbasce au Cumbiēnde a San Giuānne, nén truvavate le solde réndre a’la cascetta? Chìlle vé l’haīe arrubbate i’! Pare che la sua esecuzione capitale, avvenuta nei pressi dell’attuale carcere mandamentale durante il Carnevale del 1859, là dove ora vi è eretto un ceppo con su una grande croce di ferro, sia stata l’ultima eseguita a Campobasso.
Il bucato di un tempo
Il bucato (culata) era una attività che le nostre casalinghe espletavano in casa. Un’operazione che richiedeva tempo ed impegno ma che, alla fine, garantiva una biancheria candida e fresca. I panni erano prelavati, prima di tutto, in un grosso mastello di legno o in una conca (bagnaróla) o presso un lavatoio pubblico (Funtanavecchia). Una volta strizzati sommariamente su una tavola di legno (stréculatore), venivano riposti nello stesso recipiente privo di acqua e coperti con un telo su cui si cospargeva uno spesso strato di cenere depurata dalle scorie (cénnérata). Ad operazione ultimata, su di esso si versava abbondante acqua bollente fino alla totale copertura dei panni. Il miscuglio di acqua e cenere ottenuto era chiamato lusciēlla. Molte massaie, dopo questa operazione, lasciavano riposare il bucato tutta la notte. Il giorno successivo risciacquavano la biancheria con acqua fredda e la sciorinavano al sole su delle corde o su un prato. Chi optava diversamente faceva uscire l’acqua con la cenere attraverso un foro posto nella parte bassa del mastello. Il risultato finale era sempre lo stesso: biancheria candida e fresca. L’ultima fase, dopo l’asciugatura dei panni, era la stiratura, operazione che si faceva con il ferro a carbone, se si trattava di panni molto grandi, altrimenti, per i piccoli indumenti, si adoperava un ferro semplice fatto arroventare preventivamente sul fuoco.
Il sapone
Seppure a Campobasso c’era un fiorente opificio per la produzione del sapone (Saponificio) all’imbocco della vecchia statale che conduce a Napoli, nei pressi del Ponte a tre scale, molte delle nostre nonne preferivano farselo da sole. Il sapone prodotto in casa era adoperato anche come detergente per la pulizia intima. La sua preparazione era alquanto laboriosa, comportando tutta una serie di passaggi, dalla creazione della lisciva, alla sua cottura a fuoco lento per alcune ore, dal suo filtraggio per eliminarne le impurità, ad una nuova fase di cottura dopo averla mescolata con amido e grasso di maiale (sìve) sciolti in un recipiente a parte. Terminato questo processo, il composto ottenuto veniva sezionato a tocchi e fatto essiccare per alcuni giorni prima dell’uso. Molte massaie adoperavano la soda caustica al posto della lisciva, restando, spesso, ustionate al suo contatto.
Arnaldo Brunale