Elogio al genio della follia, alla folle genialità
Cos'è l'arte senza una malinconica disperazione?
di Cannavina Stefania
“Oh, quanto il genio e la follia si toccano da vicino! Coloro che il cielo ha contrassegnato, nel bene e nel male, sono tutti soggetti, in misura differente, a entrambi i sintomi. Li manifestano più o meno frequentemente, con maggiore o minore virulenza. Alle volte li si rinchiude, e li si incatena; altre volte si erigono loro delle statue”
(D. Diderot)
Un gene.
Ciò che relaziona il genio creativo al “male oscuro” della follia è una questione di genetica.
Questo è lo studio di Szabolcks Kéri della Semmelweis University di Budapest, che ha individuato una particolare variante genetica della Neuregulina-1, la proteina cellulare responsabile del grado di connessione tra neuroni e con un ruolo importante nei processi cognitivi, associata sia ad un’elevata incidenza di malattie mentali come la schizofrenia e il disturbo bipolare, che ad un maggior estro creativo in persone con elevato rendimento intellettuale ed accademico. In particolare, si è analizzato come la Neuregulina-1, svolgendo una funzione inibitrice delle operazioni di filtraggio della corteccia prefrontale rispetto ai ricordi e alle percezioni, può comportare alti picchi creativi in persone con alto quoziente intellettivo, anche se tali persone possono trovarsi in una fase pre-sintomatica di gravi malattie neurodegenerative. Tuttavia, non sono ancora note le cause di questa variante genetica, né è stato considerato lo studio pienamente esaudiente come risposta ad una delle domande che hanno sconvolto maggiormente il mondo artistico e letterario, filosofico e culturale. Già Seneca, il celebre autore latino, considerava la coesistenza della follia e del genio in un medesimo individuo come condizione indispensabile per la sua variante artistica, così come Aristotele e lo stesso Diderot.
Ma è il genio un eccesso di follia? O la follia un eccesso di genio?
Si pensi ai grandi del passato, da Caravaggio, sofferente di disturbo bordeline, a Vincent Van Gogh, distrutto dalla propria depressione e condizione sociale. Il loro pennello era guidato sulla tela dalla visione angosciosa che avevano del mondo, dell’universo, dalle loro ossessioni e talvolta manie.
Ma il processo di autodistruzione si innesca inesorabilmente soltanto quando l’artista, lo scrittore, il filosofo, si accorge che la sua condizione patologica è indispensabile per la sua arte, poiché senza non riuscirebbe più a comporla, o a tingerla dei colori che lo caratterizzano, di se’. In fondo, il dolore è sempre stato parte integrante dell’essere umano. La sua predisposizione lo rende instabile, come un quadro oscillante nel vuoto, mantenuto al centro da un sottile filo trasparente. Oscilla tra la precarietà della vita e l’inesorabilità della morte, aspetta che quel filo venga troncato di netto e sprofondi nell’abisso.
Ma cos’è l’arte senza una malinconica disperazione?
Geniale è chi sa rendere la propria fragilità produttiva, esplicativa, unificatrice di popoli e pensieri.
Ma per premere sulle pieghe, piaghe del proprio animo, bisogna essere inconsciamente folli.
Basta un soffio, un tocco, una pressione applicata su un punto errato e l’animo umano si sgretola come fosse fatto di cristallo.