La rubrica “Alesia ed i suoi compagni di viaggio” ospita questa settimana l’interessante contributo di Fabrizio Bartelloni
«Io non capisco la gente che non ci piacciono i crauti» diceva una vecchia canzone scritta da Mario Pogliotti per Ivan Dalla Mea e poi ripresa e parodiata da Francesco Guccini con la spassosa I Fichi. Ecco, io allo stesso modo non capisco la gente che non ci piace Giorgio Gaber. Non è un bel sentimento, lo riconosco, e certo è indotto dall’amore profondo che invece personalmente provo per il Signor G, ma quando m’imbatto in qualcuno che pare non apprezzare l’estro, la creatività, l’intelligenza, l’impegno e il rigore di uno dei maggiori artisti del novecento italiano, davvero mi domando se il giudizio non dipenda dal malfunzionamento di qualche sinapsi. Sono spietato unt ingiusto, come il magnifico Thorz di Paolo Villaggio in Brancaleone alle crociate, soprattutto perché so bene quante critiche e accuse abbia ricevuto Giorgio Gaberščik, milanese di paterne origini istriane, durante la sua lunga carriera e non dovrei stupirmi, dunque, se ancora oggi ne salta fuori qualcuna da certi logori cilindri. In genere la più volgare e sciatta: quella d’essere stato un qualunquista, un demagogo da palcoscenico. Poco importa se di quell’accusa approssimativa il Signor G e il suo fedele e riservato compagno di viaggio, Sandro Luporini, si fossero fatti beffe fin dalla spietata e lucida Quando è moda è moda, brano conclusivo di quello spettacolo centrale nella produzione gaberiana che è stato Polli d’allevamento (1978): si può essere certi che ancora oggi, quando per una qualsiasi ragione torni in auge il nome di Gaber, spunterà qualcuno pronto a recitare la noiosa filastrocca del qualunquismo. È accaduto, infatti, anche all’inizio di quest’anno, in occasione delle molte evocazioni e celebrazioni che hanno accompagnato il ventennale della morte (Gaber è scomparso il 1° gennaio del 2003, ndr), ma per fortuna il dissonante brusio è stato sommerso da un coro di tributi, di memorie e di consensi che ha infine chiarito quale sia stato il vero e imperdonabile torto del duo Gaber-Luporini: aver sempre rivendicato e preteso un’autonomia di pensiero. Il rifiuto di qualsiasi forma di conformismo, la diffidenza verso ogni appartenenza acritica e fideistica, comprese le comuni di chi «aveva scambiato il materialismo dialettico per il vangelo secondo Lenin» (Qualcuno era comunista, 1995), lo scetticismo nei confronti d’ogni dottrina colma di risposte e povera di domande. In questo si sostanzia il “qualunquismo” gaberiano, non a caso attaccato e preso di mira soprattutto da parte di quella pretesa intellighenzia di sinistra compiaciuta e ripiegata su se stessa al punto di non accettare che i dogmi del proprio credo fossero messi in discussione. Sono le critiche che Gaber ha sofferto di più, quelle che ha visto arrivare da quel movimento e da quella parte politica da cui egli stesso proveniva e di cui si è a lungo sentito parte, da quelle stesse persone che fino a poco prima lo avevano incensato e che poi hanno interpretato il suo smarcarsi dal collettivismo cieco e sordo come un’infedeltà alla linea.
Sarebbe certo stato più comodo e fruttuoso, per la strana coppia formata da un musico lombardo e un pittore viareggino, rientrare nel sistema, adeguarsi al teorizzato e stantio ruolo di ‘intellettuale organico’, ma, come chiariva un altro irregolare, un anarchico per indole e per pensiero come Fabrizio De André, l’integrazione politica dell’artista rappresenta una sconfitta, la soppressione di un anticorpo contro il potere e, dunque, il sostanziale acquartieramento in quei sepolcri imbiancati che certe avanguardie reazionarie affermavano di voler abbattere. Si tratta, insomma, di un’esigenza di indipendenza, di libertà, nel senso più autentico del termine. E non è certo un caso che tuttora la celebre canzone di Gaber che porta quel titolo, La libertà appunto, venga fraintesa e sovente interpretata, anche da alcuni soloni-tromboni appassiti sulle sponde della rive gauche, come invito a una attivazione collettiva, un richiamo alle file serrate e compatte, soprattutto in direzione delle urne. Se ne duole ancora oggi Sandro Luporini di quel fraintendimento, di non essere riuscito a trovare una formula più efficace per sintetizzare il concetto che realmente volevano esprimere: la libertà è spazio d’incidenza.
Locuzione effettivamente complicata da inserire nella metrica di una canzone e perciò virata in quel «la libertà è partecipazione» che così bene si presta a essere deviato nella direzione più congeniale ai propri desiderata, con buona pace di un’interpretazione sistematica basata sullo spettacolo di cui fa parte (Dialogo tra un impegnato e un non so, 1972) e della ragione. E invece i due, peraltro concordi all’epoca nel disertare il voto, intendevano dire che una libertà non può davvero definirsi tale se non offre la possibilità concreta di cambiare le cose, se non diviene strumento per modellare la società e avvicinarla all’ideale utopico, a differenza di quelle «libertà obbligatorie» che, secondo la lezione pasoliniana, nella società consumistica valgono soltanto a intrattenere, incantare, distrarre le masse con una messe di vacui Si può (in Libertà obbligatoria, 1976 e in Il Teatro Canzone, 1991). Sorge perciò il sospetto che le critiche a Gaber nascano, in fondo, da una pigrizia intellettuale legata con nodo gordiano al timore di sentirsi smarriti e disarmati al di fuori delle proprie rassicuranti gabbie ideologiche e culturali. Gabbie che, al contrario, il Signor G ha sempre temuto e fuggito, pure quando erano dorate, come il successo popolare e televisivo, ripudiato agli inizi degli anni settanta per creare con Luporini ciò che oggi chiamiamo Teatro Canzone, e come l’inquadramento in una solida e protettiva sovrastruttura politica che gli avrebbe tuttavia impedito di rivendicare quella libera «non appartenenza» (E pensare che c’era il pensiero, 1994), che ben lungi dal rappresentare un disimpegno, segnalava invece l’urgenza di seminare dubbi, rivelare le contraddizioni, mettere in discussione quelle granitiche certezze che, in virtù del loro peso, rischiano di tenere ancorati nelle acque basse di un comodo immobilismo. Sta dunque proprio nella complessità, nell’approfondimento, nel distacco critico dall’adesione facile e ottusa a cliché ideologici, la modernità del messaggio gaberiano, così capace di superare il suo tempo, il contingente, proprio perché a servizio di una libertà di pensiero in grado – gabbiano non più ipotetico – di alzarsi in volo verso il futuro, liberandoci dalle strette maglie della nostra idiozia conquistata a fatica (2002).
Fabrizio Bartelloni