Di alcune parole-chiave nella scrittura critica di Oreste Macrì (prima parte)

È sempre con grande onore ed entusiasmo che “Alesia e i suoi compagni di viaggio ospitano questa settimana e la prossima i contributi preziosi del prof Gaetano Chiappini illustre ispanista e colgono ancora l’occasione per ringraziare la signora Adelaide Bianchini che ha permesso la pubblicazione di questo eccellente lavoro del marito defunto

di Gaetano Chiappini

Diceva il grande critico francese Sainte-Beuve: “Se volete sapere come la pensa uno scrittore, osservate le parole che ripete”. E che, evidentemente, sono quelle sulle quali più conta e che pone davanti a sé, per ribadire i suoi atteggiamenti e il suo pensiero vitale. Del resto, questo accade per tutti coloro che scrivono, in quanto, nella ricerca dell’espressione più rappresentativa di sé, ricorrono alle parole che meglio evidenziano i propri fondamenti verbali, le parole-chiave delle proprie riflessioni. In generale, però, questo comportamento può diventare forse anche troppo esibito e scoperto fino a diventare – come nel titolo di un ben noto libro di studi e di analisi psicanalitiche di testi letterari Dalle metafore ossessive al mito personale del medico e critico francese Charles Mauron – una vera e propria fissazione, che trova quasi ossessivamente le sue immagini e figure e ne fa dei simboli ricorrenti e significativi. E questo, stavamo per dire, non sempre incontra consenso e accettazione – a cominciare dai maestri di scuola e via discorrendo, che censurano compiaciuti e felici la cosiddetta ‘ripetizione’. Che viene anzi respinta senza saperne il valore di rivelazione profonda. (Va bene che per gli scolaretti codesto è poi anche un sintomo di un vocabolario ristretto; ma ciò non sempre è vero, essendo sempre la ripetizione un appello a chi legge e uno specchio di confronto). Comunque, spesso la ripetizione è anche un inutile girare attorno all’argomento, come per un pigro o inerte piétinement sur place, di chi non riesce a districare i suoi pensieri e finisce per perdersi nel proprio ginepraio… Comunque sia, e col dovuto senso di misura, si possono anche evitare i proprî tic di scrittura e coraggiosamente lasciarsi indietro le proprie “muletillas” (o intercalari), che lasciano impantanarsi nella scrittura e, peggio, nelle spirali affannose del proprio (modesto) pensiero. E poi, ci sono gli scrittori veri e propri, i quali non solo accentuano i proprî miti verbali, ma ribattono con motivata insistenza le loro necessarie parole-chiave o anche solo i “puncta” rilevanti (parola tipica di Macrí!) della loro visione e speculazione. Insomma, qualcosa di precisamente significativo del loro linguaggio. Queste parole, in realtà, si costituiscono come i riferimenti necessarî e sostanziali di una teoria, di un modo di vedere le cose del mondo come delle coerenti e ragionate immagini che di esso mondo sono gli inevitabili pilastri. Vogliamo fare due piccoli esempî, scegliendo due grandi autori (poeti) attraverso le concordanze che, nel loro lessico, segnalano le necessità e preferenze, pur tutte da dimostrare e da innestare nel rispettivo sistema verbale, per le opportune qualificazioni di funzionalità e senso; così, come nelle sfumature che quelle parole nodali, o solo fissate, insinuano e riaffermano nel tessuto del vocabolario complessivo di uno o di un altro autore. Ci limitiamo alle rispettive quantità, lasciando a ciascun lettore interessato la verifica, gli accostamenti, le induzioni con cui le parole ripetute costruiscono quella che si suole chiamare la lingua dell’autore – con l’idioletto delle scelte stilistiche – che il grande linguista ginevrino Saussure chiama in francese “parole”. L’accostamento dei lessemi Petrarca-Leopardi ha un mero valore di esempio e di confronto e di curiosità senza pretese, perché, non solo, qui, s’intendono le parole decisive e ripetute dei poeti e degli scrittori e non semplici usi, ma quando sono parole-chiave esse non emergono tanto in senso quantitativo, bensì come parole attorno alle quali si collocano gli interessi dell’intenzionale. In altri termini, non basta l’affluenza delle frequenze ma la loro funzione incisiva, in modo che tali parole siano fondamentali per delineare il rispettivo sistema significante-significato degli autori. Per questo, ripetiamo, non bastano le frequenze delle parole, ma la loro posizione nelle svolte del pensiero e nella costituzione delle figure portanti delle singole scritture coi loro campi semantici pertinenti (p.e. lo spazio di Ungaretti). Per i due poeti, insomma, diamo solo il rispettivo numero di uso delle parole, ma resta tutto da definire il loro ruolo e il loro significato: Petrarca: vita: 150, sole: 155, prendere: 69, dolore: 60; Leopardi – nelle scritture giovanili –: vita: 54, sole: 54, prendere: 32, dolore: 38. Comunque, abbiamo scelto parole importanti, che certamente conteranno per qualcosa. Tutto da studiare! A noi, qui, basti solo aver tratteggiato il tema: che è quello delle parole-chiave e ripetute nelle opere di uno scrittore. Ovviamente, la stessa cosa avviene nella scrittura dei critici, non solo in quanto scrittori sui generis, ma proprio come ovvî portatori anch’essi di un pensiero critico-scrittorio che li renda riconoscibili anche nelle scelte linguistiche, oltre al punto di vista delle tematiche e impostazione del sistema critico (critica tematica, stilistica, filologica-testuale, verbale, sociologica, culturalista, sociologica, strutturale, semiologica, semantica, decostruzionista, storicistica, archetipica e psicanalista, ecc.; lo stesso Macrí ha costruito un densissimo studio sulla “Mente di De Robertis”, dal punto di vista delle metafore del grande critico). Ma certamente, qui risulta impossibile fare un’esperienza analoga del proprio Oreste Macrí, per ragioni comprensibili. Per di più, dibattendosi nel numero sterminato delle sue opere, oltre alla complessità dello stesso suo linguaggio. Per questo, proponiamo qui un piccolo escamotage: tra le parole numerose che caratterizzano la lingua del critico (fra le tante: animico, polarizzazione, terribile, agonico, occulto, investimento, scepsi…), e che sono la sua percezione del linguaggio sotterraneo della poesia nel suo rapporto con il linguaggio del critico, ci limitiamo a tre molto significative, tenendo conto, naturalmente, del fatto che si lasciano fuori le specifiche terminologie tecniche, oltre allo specifico gergo critico che Macrí usa, così come avviene per tutti i critici. Esso costituisce lo strumento-base per sondare i testi; ma qui si aprirebbe un altro capitolo, del linguaggio tecnico-critico della critica che opera sulla parola poetica. Semmai, prima di accedere alle tre parole importanti, può essere significativo riportare brevemente un episodio di un critico che legge e osserva il critico, nella persona che qui scrive e che si è trovata di fronte all’occulto sottotesto dello stesso Oreste Macrí! Non vittima di sé stesso e del proprio metodo, ma del suo proprio metodo applicato a lui stesso. Orbene: in un nostro studio su un ampio brano di prosa critica (su Giovanni Boine – 847 parole, Limite della volontà in Esemplari del sentimento poetico contemporaneo, Vallecchi, Firenze 1941, pp. 173-176; cfr. G.C., Per un avvio all’analisi del pensiero e della critica di Oreste Macrí: Giovanni Boine e l’esatta misura, in “microprovincia”, 44, n.s. gennaio-dicembre 2006, pp. 22-90), esaminato parola per parola, sillaba per sillaba come se le parole fossero attaccate l’una all’altra, è accaduto il seguente fatto: leggendo attentamente il pezzo e cercando riscontri in parole, sinonimi e contrari, si è evidenziata un’insistenza su due lessemi (verità e purezza) decisivi ed attinenti all’essenza del vocabolario particolare del critico stesso (verità, vero, avverarsi, appurare, puro, eppure che contiene la sillaba, falso, finto, ecc.) non solo nelle parole ma nei nastri sillabici (doveera contiene la vera, avversario contiene la sillaba ver, come anche dovere…): si tratta come di due lessemi trasversali, ma disseminati, occulti nel loro contesto, istanze non consapevoli e come segrete e sfuggite al controllo cosciente dello scrittore. E per noi invece sono parole decisive che ci danno le vere chiavi di lettura della tematica profonda del critico (o dello scrittore) intenzionale ma anche ignaro del proprio scrivere. Macrí stesso parlerebbe di “frontiera” (fra il conscio e l’inconscio). Ma anche questo è un altro problema… Comunque, il campione funziona così, ed è segno di una forte inclinazione etico-semantica del critico-scrittore. Con la fittissima presenza della figura della “verità” e della “purezza”. Nel campione, le sillabe (o gli interi lessemi) riportano la loro presenza insistita, rispettivamente, di 45 occorrenze del campo semantico del vero (vero, certo, falso, falsamente, illusione, ecc. e loro sillabe utili); 11 per puro. E questo direbbe molto delle mozioni profonde dello scrittore e del critico, se non fosse pure che, ad un conteggio attento dell’intero saggio, il campo semantico della verità riferisce 429 frequenze, rispettivamente, e, pur solo 71 della purezza! questo dice bene che sarà la “verità” più che la “purezza” – anche, indiscutibilmente presente – ad essere al centro del sistema-saggio. Anche per lasciare da un canto questa “purezza”, da non far miscugli con la cosiddetta “poesia pura”. (continua nel prossimo numero).

NOTA BIOGRAFICA

Gaetano Chiappini (Piacenza 1936-Firenze 2014) illustre ispanista e sapiente lettore della poesia universale,. Alla sua attività di docente universitario presso la Cattedra di Lingua Spagnola dell’Università di Firenze si accompagna un’ingente opera saggistica, con lavori incentrati soprattutto sulla scrittura mistica e numerosi autori dei Secoli d’oro e del Novecento spagnolo e italiano. Ha inoltre curato l’edizione critica dell’opera di Francisco de Rioja e, insieme al maestro Oreste Macrí, quella di Antonio Machado, uscita nel 1989 per il prestigioso editore spagnolo Espasa-Calpe. Dal 1992, è stato «Membro corrispondente straniero» della Real Academia Española de la Lengua, titolo che completa la sua figura di studioso e punto di riferimento dell’ispanistica italiana.