Anche “Alesia ed i suoi compagni di viaggio” celebrano i 700 anni dalla morte del Sommo Poeta con un contributo originale dell’amico Leonardo
di Leonardo Lavacchi*
Qualche tempo fa ho ascoltato Lorenzo Bastida leggere e commentare appassionatamente il primo canto del Purgatorio dantesco in una chiesa fiorentina. L’evento, piacevole e interessante per la competente conduzione in ambiente suggestivo, ha innescato delle riflessioni che, lentamente sedimentate, sono tornate a galla di recente, quando la libraia della Black Spring di via di Camaldoli mi ha parlato di controcultura quale criterio di selezione dei volumi in vendita. Il risultato sono queste note, vergate con la speranza che perdonino gli illustri dantisti, qualora dovessero metterci gli occhi sopra, l’ingenua invasione di campo operata da chi non è dantista e tantomeno illustre.
Dunque, seguiamo Dante e Virgilio che con sollievo escono dall’inferno, ci lasciamo cullare dall’elegante scioltezza della terzine ma conserviamo la lucidità necessaria per ammirare le conoscenze astrofisiche del poeta, eccezionali per quell’epoca. È un richiamo all’attenzione l’entrata in scena del vecchio e severo custode dell’ingresso al purgatorio, che chiede ai due pellegrini quali circostanze abbiano permesso l’evasione dall’inferno in spregio alle regole fino a quel momento vigenti. Comprendiamo che si tratta di Catone quando Virgilio gli si rivolge, dilungandosi in spiegazioni che iniziano con la virtù e l’amore di Beatrice, per grazia della quale essi là si trovano, e terminano con la richiesta del transito in nome dell’amore che l’Uticense portava alla moglie Marzia.
In mezzo i due versi che, come un’esplosione violenta, colpiscono l’ascoltatore per bellezza, potenza e illogicità:
libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Virgilio ottiene così libero passaggio, ma cosa significa quella frase? Sappiamo che Catone si uccise quando svanirono le ultime speranze di resistere all’egemonia di Cesare e di mantenere le libertà repubblicane, quindi dobbiamo interpretare: Dante va cercando la libertà e Catone, che per la libertà ha rifiutato la vita, sa bene quanto essa sia cara, aggettivo dal doppio significato che già appartiene al latino carus (‘amato’ e ‘di alto prezzo’). Ma non c’è logica, perché se Dante si trova lì e vuole accedere al purgatorio, non è per cercare la libertà della quale Catone conosce il prezzo, tanto alto che gli è costata la vita. Il problema evidentemente esiste ed esiste la soluzione ufficiale, con il ricorso all’interpretazione figurale e l’attribuzione alla libertà che Dante va cercando nel suo viaggio per l’aldilà il carattere di libertà morale, dalle passioni e dal peccato, della quale la libertà amata da Catone, che è tutt’altro, sarebbe prefigurazione. In questo modo si è però introdotta un’aberrazione grammaticale, perché all’antecedente libertà (quella che Dante va cercando), al relativo che (ancora quella, amata e di alto prezzo) e all’anaforico lei (quella per cui Catone ha rifiutato la vita) nonè attribuito lo stesso referente, il che toglie al come sa ogni significato. È un lusso che Dante non è solito concedersi, a quanto mi risulta.
Altri problemi sussistono. Virgilio non usa in questa occasione la formula che per tre volte gli è valsa ad aprire la strada, espressa in versi magnifici, fra i più belli dell’intero poema:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare.
È vero che un richiamo all’assolutezza del potere sarebbe stato fuori luogo con Catone come parlare di amore e libertà con Caronte, Minosse e Plutone, ed è vero anche che Virgilio si mostra qui molto rispettoso, quasi ossequioso. In cambio, se libertà significa ‘libertà dalle passioni’, il discorso di Virgilio diventa per l’Uticense un rimprovero, come un volergli rinfacciare il difetto di ciò che invece Dante, più saggiamente, va cercando. Perché Catone, che come dicevamo si è suicidato per motivi politici, quindi per una passione molto terrena, sa quanto è cara la libertà politica e senza di essa nemmeno la morte gli fu amara, ma non è certo un campione di libertà dalle passioni.
Teniamo invece presente il viaggio che Dante sta compiendo nella vita reale, per duro calle e pan salato. Come Catone si è suicidato per non sottomettersi al potere assoluto di Cesare, così Dante si è schierato contro l’autoritarismo di Bonifacio VIII, e gli è toccato l’esilio. È la stessa libertà, amata e pagata a caro prezzo, che accomuna il poeta fiorentino e il politico romano. Del resto, come si è guadagnato Catone, pagano e suicida, il posto di guardiano del purgatorio? Gli esegeti sono stati costretti ad arrampicarsi sugli specchi per trovare un giusto motivo; a me viene da pensare che sia lì proprio per permettere a Dante di pronunciare, tramite le parole di Virgilio, questo inno alla libertà.
Una considerazione va fatta. Siamo di fronte a della poesia autentica, ed è bene precisare che non sto usando, qui e in seguito, il termine nell’accezione di genere letterario, ma per denotare il carattere di quelle espressioni che per elevatezza concettuale e formale, forza creativa e suggestività trasmettono sentimenti, emozioni e immagini che innalzano al di sopra dei valori correnti. È una definizione, fra le tante, della qualità che può essere presente anche nella prosa – più generalmente in ogni manifestazione artistica – e che difficilmente è rintracciabile nei best seller impilati agli ingressi delle grandi librerie (mi si perdoni la digressione). La poesia, dunque, è un terreno nel quale l’anfibologia è sovrana: tocca al lettore scegliere l’interpretazione che nel cuor suo meglio risuona. Del resto non impongono una scelta precisa le successive parole di Catone, che, ignorando il riferimento alla libertà, motiva la concessione del transito con la presenza in cielo della donna che ha incaricato Virgilio di guidare Dante nel viaggio. Non mi sentirei quindi di negare assolutamente validità alle interpretazioni più diffuse, ma spero che sia concesso diritto di cittadinanza anche a questa mia analisi.
E ora ritorno alle riflessioni che hanno determinato il titolo di questo articolo. Dante è un uomo del medioevo, immerso completamente nella cultura del suo tempo che padroneggia come nessun altro. Sono medievali le sue concezioni, le sue credenze, la struttura della sua opera. Non così quando è poeta, perché allora si colloca fuori del suo tempo, tanto che si è portati a vedere nelle sue più pregnanti espressioni i germogli della pianta che sboccerà nell’Umanesimo e nel Rinascimento. Io considero limitativo attribuire a Dante il ruolo di precursore di epoche a venire, perché ciò che è avveniristico e profetico in un dato momento diverrà scontato in epoca successiva, e più tardi ancora superato. Io credo che nella poesia di Dante, come in tutta la vera poesia, sia presente inevitabilmente un germe di controcultura – preferirei il termine oltrecultura – che supera e travalica non soltanto le concezioni del tempo in cui si manifesta, incluse quelle dello stesso autore, ma ogni possibile concezione attribuibile a un’epoca e a un popolo.
*Leonardo Lavacchipensionato, lessicografo, grammatico e traduttore (per ex professione), letterato (per passione), narratore (per ossessione). È autore di romanzi e racconti poco letti. Ciò che pretende da un racconto, al limite anche da un romanzo, è che sia degna cornice di qualche bella frase.