“Alesia ed i suoi Compagni di Viaggio” ospitano questa settimana un interessante contributo dell’Ingegnere Agostino Corallo
Nel precedente articolo, del 02.08.2020, ho chiuso il breve excursus con un riferimento al mitologico sacerdote troiano Lacoonte ed un rinvio ad un successivo intervento su temi prettamente ingegneristici. Ebbene, eccomi al punto incominciando proprio da quel riferimento conclusivo, così come rappresentato nel celebre gruppo marmoreo conservato presso i musei vaticani. Una attenta ed empatica osservazione della scultura consente “subito” di riconoscere lo sforzo che la attraversa, fino ad improntarla di sé facendone l’elemento caratterizzante e dunque l’avvio per un serio confronto con il tema teorico ed operativo del progetto. Quel che si tenta di esplorare qui sono gli elementi che permettono alla tensione, che deve animare il progettista, al contrario di quella del personaggio della mitologia greca, di avere buon esito, nonostante le molteplici insidie che circondano la realizzazione di ogni opera di architettura. “Timeo Danaos et dona ferentes” è ancora oggi l’esclamazione – esortazione che deve sentire a sé rivolta chiunque intenda lasciare sul territorio elementi di paesaggio che sappiano inserirsi nell’esistente, con rispetto e distinzione, e proiettarsi in avanti come segno di consapevolezza del processo storico, rinunciando a qualsivoglia grecità proditoriamente offerta da soluzioni meccanicamente, ripetitivamente e banalmente prodotte, prive dunque del fondamento di una analisi contestualizzante che individui e comprenda il genius loci, le specificità del luogo , quale imprescindibile premessa per la elaborazione di un progetto capace di interagire con le preesistenze ambientali, traendone ragioni per definire la propria identità ed apportandone, con il cambiamento che esso concretizzerà, alla definizione dell’identità dei luoghi e del paesaggio. Considerato che la identità, appunto, non è ne pensabile ne empiricamente rilevabile se non in termini di interazione, essendo quest’ultima primariamente confronto critico con la storia e la cultura, nella consapevolezza che, come ci spiega l’antropologia culturale, cultura è ogni intervento umano sul dato naturale per trasformarlo ed inserirlo in un rapporto sociale.
L’opera architettonica è perciò gravida di intenzionalità, delle quali è ragionevole ed auspicabile favorire la diffusione, attraverso l’educazione e l’affinamento degli strumenti normativi, di quelle che sensatamente valutano il delicato equilibrio tra natura e cultura, aiutandoci a capire l’artificiale e ad usarlo saggiamente. Escluso ogni riferimento ideologico, per una prossimità filosofica ed epistemologica con i temi qui trattati, sembra opportuno, adesso, sintetizzare quanto sopra esposto riportando un noto passo del Capitale di Marx:
«Il nostro presupposto è il lavoro in una forma nella quale esso appartiene esclusivamente all’uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettuisoltanto un cambiamento di forma dell’elemento naturale; egli realizzanell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà. E questa subordinazione non è un atto singolo e isolato». Nell’essere prima pensato consiste quindi la specificità del lavoro umano, di cui bisogna prendere atto affinché l’opera di architettura perda ogni carattere di “lavoro animalesco” e realizzi, invece, pienamente la sua funzione di mezzo utile alla vita degli uomini, compreso il suo porsi come sistema di segni decodificabile e intellegibile del nostro agire sostenibile sul territorio, coniugando nel contempo i tre principi della firmitas, dell’utilitas e della venustas che già Vitruvio aveva individuato come coordinate generali dell’arte del costruire. Infatti dietro questi principi, che la sola enunciazione lascerebbe in una dimensione alquanto astratta, stanno le concretissime questioni della confortevolezza, dell’efficienza energetica, dell’impatto ambientale, della sicurezza, innanzitutto strutturale, della durabilità, della sostenibilità economica, della espressività formale e dell’armonico inserimento nel paesaggio. Tutte questioni, a loro volta, che poggiano su una approfondita conoscenza del territorio, che è al tempo stesso geografia, geologia, morfologia, sismologia, idrologia, idraulica, idrogeologia, cultura e storia. La vastità delle problematiche e le loro ripercussioni ambientali e sociali fanno emergere uno degli elementi di insidia, che chiariremo tra breve, della attività di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio, ossia il ruolo svolto dalla Pubblica Amministrazione nel governo del territorio attraverso la emanazione di norme: ad esempio il DPR n°380/01 all’art. 52 comma 1, stabilisce che «in tutti i Comuni della Repubblica, le costruzioni sia pubbliche, sia private, devono essere realizzate in osservanza delle norme tecniche riguardanti i vari elementi costruttivi».
Insidia dunque costituita non dalla norma in sé, che pure può essere carente e de factolo è poiché modificabile nel tempo, quanto piuttosto da una sua pedissequa interpretazione astrattamente vincolante, che favorisce quelle soluzioni progettuali standardizzate all’inizio denunciate.
Pertanto se indispensabile è il connubio, espresso nelle norme, tra patrimonio tecnico-scientifico, culturale più in generale, e i contenuti dell’azione politica, non necessaria è invece una “lettura prescrittiva” delle norme , che nel loro esercitare una funzione di guida non rendono uguale a zero i gradi di libertà di chi voglia progettare spazi significativi per gli esseri umani.
Tanto è che Riccardo Morandi in alcune sue riflessioni, perfino sul calcolo che pure si articola intorno ai nuclei duri dell’equilibrio, della congruenza e del legame costitutivo, riguardi esso l’analisi strutturale statica o dinamica, lineare o non lineare, annota: “Il calcolo questa parola misteriosa per i non iniziati e in nome della quale si sono sciupate e si seguitano a sciupare tante realizzazioni di bellissimi temi, può mai essere considerato un fattore assoluto di determinazione della forma di una struttura, quando risulta ampiamente dimostrato che essa è fondata sulla consapevole sensibilità di chi progetta, architetto o ingegnere che sia?”
A ciò possiamo aggiungere che l’odierna disponibilità di programmi di calcolo automatico, liberando il progettista dall’onere computazionale, dovrebbe stimolare ed incoraggiare la ricerca di soluzioni non banali, ma non per questo inutilmente o peggio ancora inopportunamente complicate. Al riguardo è sufficiente considerare i problemi di risposta strutturale in fase sismica delle costruzioni irregolari, nonostante le maggiori libertà concesse dall’isolamento alla base.
Se la norma tecnica, nel senso poc’anzi precisato, può intendersi come insidia ex ante rispetto al progetto, corre qui l’obbligo di evidenziare, altresì, quella ex post, strettamente connessa alla fase esecutiva, nella quale le figure coinvolte è necessario che percepiscano e comprendano, con anticipo rispetto al fruitore, la rilevanza dell’opera architettonica, come impronta antropica sul territorio, della quale determinano, in buona parte, attraverso le loro azioni la durabilità, portando ad esistenza rappresentazioni virtuali, rendering, oggi quanto mai realistiche.
Pierluigi Nervi che autorevolmente ha rappresentato l’Architettura e l’Ingegneria Strutturale del Novecento, con profonda conoscenza degli aspetti realizzativi, ci offre nel suo libro “Costruire correttamente” una lucida ed efficace descrizione del problema, che sebbene riferita alle opere di calcestruzzo armato non lede la portata generale delle argomentazioni: “Oltre alla più accurata ed intelligente progettazione, sono elementi fondamentali della riuscita di un’opera cementizia la capacità e serietà dell’organismo esecutivo e l’integrale bontà dei conglomerati. Per organismo esecutivo si deve intendere il complesso formato da dirigenti, assistenti e operai specializzati. Solo chi è stato a diretto contatto con la realtà costruttiva può valutare cosa significhi, per la riuscita finale di una difficile opera in cemento armato, la presenza di un buon assistente affiancato da un buon numero di operai specialisti, capaci e fidati. Non solo, il campo tutt’altro che facile e secondario delle strutture provvisorie è necessariamente affidato, nelle sue particolarità esecutive, all’assistente e ai capi carpentieri, ma solo un buon assistente e buoni operai possono avere tutte quelle cure esecutive formate da piccoli dettagli e da particolari attenzioni a parti di speciale importanza e difficoltà che il più attento, scrupoloso ed esperto ingegnere non potrà a priori interamente prevedere e predisporre.”
Le insidie di cui si è sino ad ora parlato afferiscono a tutto ciò che di esterno c’è alla persona del progettista, che lo condiziona ed esplicita il suo ruolo di pivot di un sistema collettivo multipolare, la cui dinamica ha la sua forza motrice all’interno del progettista, dove risiede la terza insidia, cioè la sua sensibilità come capacità analitica, più o meno adeguata, di ricognizione degli elementi caratterizzanti del contesto territoriale, urbanistico e paesaggistico in cui l’opera architettonica si inserirà relazionandosi dialetticamente, come capacità, più o meno affinata, di organizzazione di tali elementi entro un sistema di riferimento che orienti la elaborazione di soluzioni progettuali rispondenti ai bisogni di dimora e di socialità. che contraddistinguono gli uomini nella maniera più spiccata tra tutte le specie viventi; chiudendo, in modo certamente non definitivo, quel processo “circolare”, che nella storia continuamente si riproduce, attraverso le forme di rapporto degli uomini tra loro e con la natura, che la cultura da essi stessi prodotta determina.
Pertanto solo una conoscenza storica e critica dei processi culturali e delle relative materializzazioni, che coinvolge come suo ineludibile corollario i complessi temi della conservazione, può consentirci di operare con la consapevolezza di essere stati generati dal passato(anolonomia) e di volerne produrre, per noi e per le future generazioni, mettendo a frutto, quindi, il patrimonio di saperi ed esperienze di cui disponiamo, per riaffermare e rinnovare gli esempi più alti di civiltà che conosciamo.
Questa meditata assunzione di responsabilità trova un riscontro nelle appropriate notazioni contenute in un passo del libro “Comunitas: Means of livelihood and ways of life”, degli architetti ed urbanisti americani Paul e Percival Goodman_ “… un bambino, oggi, accetta lo sfondo artificiale della città come la natura inevitabile delle cose, non accorgendosi che qualcuno, una volta, ha disegnato alcune righe su un pezzo di carta. Righe che avrebbero potuto essere disegnate diversamente. Ma ora come l’architetto o l’ingegnere ha disegnato … così, il bambino e la gente sono costretti a camminare e vivere.”
È questo, potremmo dire metaforizzando, lo spazio delle fasi rappresentativo di tutti gli stati del sistema che produce l’opera architettonica, che ho provato a tratteggiare, dedicando particolare attenzione agli impegnativi e complessi compiti del progettista, intorno al quale si sviluppa un campo di tensioni dal controllo delle quali deriva, attraverso una equilibrata composizione delle diverse componenti la soluzione progettuale storicamente adeguata, che affonda le sue radici nel passato ma sa innalzarsi verso il futuro ripensando e riformulando le invarianti peculiarmente e significativamente espressive, in ogni epoca storica, della vita degli uomini.
La condizione del progettista, sopra delineata, sembra riecheggiare quella che Friedrich Nietsche attribuisce, in generale, all’uomo nella sua celebre opera “Così parlò Zarathustra”, ossia quella di “…corda tesa tra l’animale e il superuomo”, dove gli estremi che vincolano la corda sono, da una parte, la dissipazione, in realizzazioni scadenti di risorse materiali ed immateriali, che incidono negativamente e pesantemente sulla nostra vita, aprendo le porte a processi di degrado consentanei ad ogni intervento privo di identità; dall’altra e lontano da qualunque delirio di onnipotenza, il lavoro appassionato, critico e coraggioso di chi riconosce nei bisogni di dimora e di socialità degli uomini la loro origine ed il loro destino, impegnandosi ad elaborare, come in una partitura contrappuntistica, soluzioni progettuali nelle quali natura, cultura e storia siano contemperate secondo un equilibrio dinamico, che consideri la irreversibilità come aspetto rilevante della vita, della quale per dirla con le parole del filosofo Remo Bodei, non dovremmo mai dimenticare di essere ospiti.
Forse può ingenerare equivoci il trattare questioni afferenti ad ambiti eminentemente quantitativi con argomentazioni di tipo filosofico. Il mio pensiero al riguardo è che, ovunque siano presenti esseri umani, la conoscenza e la comprensione delle forze motrici del loro agire (convinzioni, mentalità, weltanschaung, etc.) sia la premessa indispensabile per la elaborazione di qualsiasi progetto (sistema quantificato) rispettoso dell’esistente e propositivo per il futuro, cioè capace di favorire trasformazioni positive di quelle forze motrici.
*Agostino Corallo (nato a Campobasso e residente a Pisa, dove si è formato come ingegnere civile e dove svolge l’attività di libero professionista)