di Sergio Genovese
Di domenica mattina se attraversavi le strade della città, soprattutto nelle stagioni calde, con le finestre aperte, l’aroma di quello che borbottava dai fornelli, profumava l’intera città e la consegnava ad una veste più intima e rassicurante. I ragù venivano preparati dal sabato, le cipolle soffritte non mancavano mai, tutti i generi di carne esistenti, entravano nel tegame di terracotta prima che una bottiglia di salsa fatta in casa inondasse il contenuto sino a riempirlo fino all’orlo. La domenica per le nostre mamme e per le nostre nonne era sempre un gran giorno. Prima le zite che dovevi spezzare fino a tagliarti le mani, poi la pasta di casa, in prevalenza i cavatelli, erano i simboli di un momento magico perchè per la gente che non se la passava bene, mangiare con il sugo di carne era il diapason della conquista. Con i soldi che scarseggiavano la mattina a tavola trovavi la tazza del latte dove inzuppare il pane, a latere tua madre ti sbatteva l’uovo discretamente coperto di zucchero. Sulle nostre tavole si mangiavano alimenti oggi, ai più, desueti. La trippa e il soffritto di fegatino, la parmigiana, la ciambotta,i peperoni ripieni e le acciughe sotto sale, l’uovo in carrozza e la frittata con le patate, erano presenti con insistenza sulla tavola della settimana cosi come il sabato era il giorno di un piatto insostituibile. I tagliolini al brodo di gallina erano una scadenza fissa come la giocata della schedina del totocalcio. C’erano poi le merende pomeridiane. La fetta di pane con l’olio e con il pomodoro oppure con lo zucchero, vitaminizzavano i mocciosi dei quartieri. Quando la giornata era solenne allora compariva persino la pizza dolce. Le nostre mamme si recavano in via Marconi da Gianfelice per acquistare il pan di spagna che poi riempivano di creme per far volare i ragazzi oltre le correnti gravitazionali. Le tavole imbandite dei quartieri, erano funzionali ad una socialità più diffusa che si toccava con mano negli anni sessanta e settanta. Era una società meno isterica e soprattutto molto meno vocata alle spettacolarizzazione e all’edonismo del “selfie” che simboleggia le alterazioni che abbiamo negli anni subito. Stare seduti a tavola significava dare valore ad ogni morso con cui si addentavano anche la fette di pane. C’era la consapevolezza che tutto avveniva per i sacrifici che le famiglie dei quartieri compivano e c’era il rispetto per una magia che si realizzava attorno al gesto della mamma o del papà che avevano il piacere di riempirti il piatto usando il mestolo che intendeva far capire che quel momento andava valorizzato come il successo di una vita. Certo se confrontiamo questa iconografia con quella di oggi c’è da mettersi le mani tra i capelli. Quell’armonia e quegli aromi sembrano essere stati spenti dalla furia di un mondo che ha detronizzato quegli incantesimi fino a derubricarli al regime del mordi (appunto) e fuggi. E’ talmente vero al punto che se oggi di domenica mattina attraversi i quartieri, senti solo il tanfo di alcol e di urina lasciato in dotazione dagli eroi della movida.