«Adolescenti nuovissimi, meglio connessi che in strada»

“Alesia ed i suoi compagni di viaggio” sono lieti di ospitare qui di seguito, su gentile autorizzazione dell’autore Matteo Lancini e dell’Editore UTET Libri, un estratto dal libro “COSA SERVE AI NOSTRI RAGAZZI – Nuovi adolescenti, spiegati ai genitori, agli insegnanti, agli adulti” (2020)

Sono passati esattamente vent’anni dalla pubblicazio­ne di un testo di grande successo, scritto da Gustavo Pietropolli Charmet, che suggeriva agli adulti come affrontare la crescita di adolescenti definiti “nuovi”. Un manoscritto che, peraltro, ho avuto il piacere di veder nascere, in un periodo in cui le trasformazioni dei modelli educativi familiari, dei miti affettivi che governavano l’esercizio del ruolo materno e paterno, e le relative ricadute sul funzionamento affettivo e re­lazionale di figli e studenti sembravano straordinarie. Una rivoluzione progressiva, che mai nessuno avreb­be però immaginato si estendesse e si ampliasse fino a determinare cambiamenti come quelli a cui assistia­mo oggi, al punto che sempre più spesso si utilizza l’espressione “nuovissimi” per definire gli adolescen­ti odierni. Difficile, infatti, ipotizzare una rottura così prolungata della funzione paterna in ambito familia­re, un nucleo sempre più vario nella composizione, ma quasi sempre presidiato dall’onnipresenza della madre virtuale che attraverso lo smartphone governa e monitora, quotidianamente, la crescita dei figli e le azioni del personale assunto per realizzare il piano didattico e alimentare previsto per quell’anno scola­stico, a partire dai primissimi anni di vita del figlio o della figlia.

Parenti stretti, tate o baby-sitter è lo stesso, si tratta comunque di figure animate dalla grande re­gista, che dal luogo di lavoro controlla che nessuno esca dal seminato, gestendo autonomamente i pro­cessi decisionali quotidiani, pena l’immediato ritiro dell’incarico.

Pochi anni fa, fuori dall’asilo frequentato da mio figlio, ho visto il nonno di un bambino modificare il programma pomeridiano del nipote a seguito della stanchezza e dell’evidente pallore del piccolino, pro­babilmente alle prese con qualche linea di febbre. Nessuna attività sportiva ma una coppetta di gela­to con aggiunta di panna e poi subito a casa. Dopo quel pomeriggio, non ho mai più visto quel nonno fuori dall’asilo. Licenziato in tronco da sua figlia, la madre virtuale appunto, che con una delega scritta a un’altra madre virtuale prendeva tempo per selezio­nare un nuovo attore da mettere in scena nella recita pomeridiana; qualcuno che non osasse mai più far saltare un allenamento al piccolo atleta e proporgli un’alimentazione pomeridiana con accenni di grassi saturi.

Così come nessuno poteva prevedere che inter­net diventasse quello che è diventato, che il telefo­no portatile dal peso di circa due chili, nato per i general manager delle multinazionali, diventasse lo smartphone regalato sempre più precocemente dai genitori per mantenersi in contatto costante con fi­gli che abitano metropoli e cittadine percepite come sempre più pericolose, al punto che nessuno può più tornare a casa da scuola da solo. Insegnanti delle pri­marie costrette, ogni pomeriggio intorno alle 16.30, a individuare con attenzione il volto del parente, o simil tale, a cui abbinare il piccolo allievo, onde evitare di consegnarlo erroneamente a un malin­tenzionato. Maestre che scannerizzano dal portone, scattando una sequenza di fotografie oculari che ri­cordano quelle segnaletiche delle forze dell’ordine. Come se fuori dalla scuola ci fosse sempre un pedo­filo in agguato, così come, quando ero giovanissimo io, avrebbe dovuto esserci qualcuno pronto a rega­larci una caramella drogata.

Miti affettivi che governano il mondo, con buona pace di chi crede che le fake news siano un prodot­to nato con internet e che quel che conta sia solo la verità oggettiva. Nelle mie indagini empiriche, effet­tuate con migliaia di genitori e insegnanti incontrati in questi anni, non ho mai rilevato la presenza di un adulto che in gioventù avesse ricevuto in dono la te­muta caramella drogata fuori dall’ambiente scolasti­co, così come le statistiche odierne confermano che la gran parte dei reati sessuali commessi su minori avviene nella cerchia familiare.

L’unica certezza è che oggi, se è il tuo turno pome­ridiano di genitore, ti rechi a scuola e devi partecipa­re attivamente a una scenetta per me insopportabile. La maestra di tuo figlio che si piega sulle gambe alla ricerca della posizione migliore per effettuare i movi­menti oculari necessari alla consegna di ogni singolo allievo, che peraltro può avere più di un adulto auto­rizzato, per cui il lunedì potrebbe dover matchare il volto del piccolo con quello del padre, il martedì con quello della nonna materna e il mercoledì con quello della mamma di un suo compagno di classe incarica­ta di ritirare entrambi e portarli al corso di violino o all’allenamento di rugby.

Tu, che sulle punte dei piedi, avvolto da un cli­ma caotico, ti sbracci e cerchi in ogni modo di farti notare, in un concerto di nomi urlati e frasi del tipo “Eccomi… Sono qui”; un’eccitazione imbarazzante, neanche fossimo al rientro del figlio da un anno di leva militare trascorso a mille chilometri da casa.

Per non parlare dei giorni di pioggia, in cui sei costretto a toglierti il cappello per farti riconoscere o a tirare ombrellate agli altri delegati della madre virtuale, pur di non arrivare ultimo alla gara della consegna del figlio: chi perde è un genitore inade­guato, troppo impegnato a gestire con lo smartphone la propria professione per poter prestare la giusta at­tenzione alle esigenze del suo bambino o della sua bambina, reduci da una dura giornata scolastica. Ipotesi ulteriormente rafforzata dal fatto di apparte­nere a quella categoria di genitori che al mattino si sono limitati a salutare il figlio sulla soglia d’ingresso, senza accompagnarlo con lo sguardo lungo le scali­nate che portano ai piani alti delle classi, agitando le braccia in segno di saluto, come quando si saliva su una nave per emigrare negli Stati Uniti d’America. È proprio nei giorni di pioggia, dopo una copiosa co­lata d’acqua sul collo proveniente dall’ombrello del vicino o all’ennesimo spintone dato, o ricevuto, per non mancare l’appuntamento con lo sguardo di tuo figlio, che mi chiedo “Ma dove siamo finiti?”, “Siamo sicuri che fosse questo il modello di società che vole­vamo a protezione dei nostri figli?”.

Negli ultimi anni nutro un crescente rimpianto per i rischi che hanno caratterizzato la mia infanzia e preadolescenza, l’epoca delle elementari e delle scuole medie. Non lo avrei mai immaginato visto il periodo: gli anni settanta, noti anche come “anni di piombo”, a partire dalla bomba di piazza Fontana che cin­quant’anni fa segnò l’inizio drammatico dell’epoca della “strategia della tensione”, delle stragi e delle leggi speciali.

Qualche maniaco sessuale in impermeabile beige e spacciatori di album di figurine fuori dalla scuola, giovani rapinatori di biglie e doppioni, sparatorie e assassini in strada per motivi politici, non impediva­no ai genitori di consegnarti l’autonomia e l’opportu­nità di uscire da scuola da solo e attraversare le strade della metropoli fino a raggiungere la tua abitazione. Dai sette anni in poi, i più tardivi a partire dagli otto, mai più nessuno sarebbe venuto a prenderti all’uscita da scuola, se non per incombenze improvvise o nella giornata di sabato, quando i genitori non lavoravano e i bambini andavano a scuola. Il contrario di quanto accade oggi nei weekend.

Camminare da solo per la città, o in compagnia di qualche amichetto di scuola, costituiva l’avvio di quel processo di socializzazione spontanea, fuori dal monitoraggio genitoriale, così necessario nelle fasi evolutive immediatamente successive, quando la spe­rimentazione di sé, e delle proprie capacità relaziona­li, non può più limitarsi alle esperienze proposte dal gruppo formale presidiato dall’adulto. L’arrivo della preadolescenza coincideva con l’ingresso in spazi an­tropologici oggi chiusi dall’angoscia adulta, che ha sequestrato il corpo del figlio, spesso programmato e unico, impedendogli libertà di movimento e gioco in cortili e giardinetti, ormai adibiti a passo carraio e recinti per cani.

Ben prima dell’avvento di videogiochi e smart­phone erano già comparsi cartelli e regolamenti con­dominiali che impedivano schiamazzi e giochi col pallone, insieme all’impossibilità di tollerare sbuc­ciature sulle ginocchia e ferite lacero contuse sulla pelle dei figli. Battaglie pomeridiane di sudore e san­gue, fionde e cerbottane, muri di cinta scavalcati (i prodromi del parkour?) e partite, in compagnia di coetanei in carne e ossa, di ogni genere e tipo. Tua madre si affacciava, invitandoti a salire per disinfet­tarti e immergerti nella vasca da bagno, ma otteneva risposte molto resistenti, del tipo: “Voglio giocare ancora, sono dipendente dai giochi di cortile!”.

Immaginatevi oggi, le reazioni adulte di fronte a compagne di cortile con facce tumefatte dalle pal­lonate prese in volto, lanciate da coetanei maschi in interi pomeriggi trascorsi a giocare a palla avvelena­ta. Chi sostiene che la diffusione di social network ed e-sport sia avvenuta contro il volere degli adulti, non ha studiato abbastanza la materia o è troppo ango­sciato dalla trama del tessuto sociale che ha contribu­ito, con le proprie scelte quotidiane, a ordire. Troppo doloroso farsi carico della società complessa che ab­biamo allestito, meglio pensare che sia solo colpa del marketing, del potere ipnotico dei videogiochi e di adolescenti rapiti dai social e dai selfie, piuttosto che interrogarsi sui crescenti processi di paranoicizzazio­ne degli altri che hanno condotto a un individuali­smo pervasivo e alla caduta della comunità educante. Piazze e battaglie virtuali hanno sostituito quello che avveniva per strada, nei cortili e nelle vie.

La preadolescenza avvia un processo di speri­mentazione delle proprie competenze relazionali e corporee fuori dal controllo degli adulti. Inutile con­tinuare a ripetere a ragazzi e ragazze che invece di perdere tempo con device e console sarebbe meglio studiassero o frequentassero attività sportive, scouti­stiche, oratoriali. Sarebbe più utile chiedersi perché non ci ascoltano.

Il tema è particolarmente complicato, ma in estre­ma sintesi riguarda, a mio avviso, il fatto che le espe­rienze videoludiche e relazionali online non sono nate a sostituzione dello studio o dello sport, ma di quelle esperienze necessarie ad allenarsi per la crescita, fuo­ri dal monitoraggio di genitori, insegnanti, parroci, educatori. Questo era il motivo per il quale i genitori invitavano i bambini a tornare a casa da soli già nel­la seconda infanzia e questo abitava la mente di una madre che, nonostante i possibili rischi, convocava il figlio intorno ai dodici anni per comunicargli che era giunto il giorno: “È arrivata l’adolescenza, vai, esci… Speriamo che torni!”. Intere giornate trascorse fuori casa, consegnato alla comunità educante diffusa, in un’epoca dove i figli erano figli di tutti e dove, forse con qualche esagerazione tipica degli anni settanta, i figli degli altri contavano anche più del tuo. Nean­che un telefonino infilato nella tasca per monitorare i movimenti del piccolo cittadino errante; non come oggi dove la madre virtuale monitora, da Varazze o Bormio, il sabato sera milanese della figlia, attraverso lo smartphone dotato di localizzatore che ha prov­veduto a consegnarle appositamente qualche anno prima. “Dove sei?” “A casa a dormire, madre mia.” “Non mi risulta, figlia mia, da qui vedo che sei sui Navigli a gozzovigliare… Entro mezz’ora ti voglio vedere a casa!”

Tutti i dati raccolti negli ultimi decenni ci dico­no che l’adolescenza coincide con la fuoriuscita dai gruppi formali organizzati dagli adulti; avveniva an­che prima della diffusione di internet e dei video­giochi. Ben facciamo a organizzare dispositivi che consentano ancora alle nuove generazioni di usufru­ire del valore pedagogico dell’avventura scoutistica laica o cattolica, di incanalare i movimenti agonistici e corporei in partite individuali o di squadra gesti­te da arbitri, allenatori, società sportive, ma ciò non deve farci dimenticare che in una determinata fase dello sviluppo queste attività verranno abbandonate, o perlomeno affiancate, a favore di esperienze gestite dal gruppo spontaneo, dalla compagnia, dai coeta­nei, oggi tutti a casa, in una società dove abbiamo chiesto loro di condividere e non di convivere.

Bambini precocissimi ed esperti di relazione

Questi sono solo alcuni dei miti affettivi, educativi e sociali che governano la crescita dei bambini che diventeranno, e sono diventati, adolescenti.

Siamo tutti coinvolti e responsabili, nessuno si senta escluso. Io per primo mi sento avvolto da una complessità di contraddizioni che non mi permettono in alcun modo di scrivere queste righe senza sottoli­neare che non intendo in alcun modo fare la morale a nessuno, e che non ho alcun rimpianto per gli adole­scenti che siamo stati. In linea di massima, trovo mol­to più relazionali e psicologizzati quelli odierni. Bam­bini cresciuti in immersione di stimoli e di coetanei, come testimoniato dal numero di chat di WhatsApp delle loro madri, corrispondente al numero di gruppi frequentati dal figlio o dalla figlia, a partire dal cor­so preparto, quando ancora non erano nati ma già si conservava la prima fotografia del futuro bambino, scattata dall’ecografo il giorno della morfologica. So­prattutto, si tratta di bambini coinvolti in continui processi di identificazione, e controidentificazione, con la propria mamma. Raffinati esperti di affetti e offerta di sguardi di ritorno, motivo per il quale ven­gono più volentieri che in passato a chiedere aiuto a uno psicologo o si rivolgono con fiducia all’insegnan­te, consegnandogli le loro sofferenze, convinti che l’adulto li possa aiutare in adolescenza, così come ha fatto la loro mamma nelle fasi precedenti. Non come molte generazioni precedenti, cresciute con sguardi di ritorno normanti, provenienti da adulti intenzio­nati a interrompere la relazione affettiva con il bam­bino disobbediente o troppo espressivo, e quindi più diffidenti davanti all’offerta di ascolto adulto, una volta raggiunta l’adolescenza.

Il mio intento, in avvio di questo libro, è solo quel­lo di sintetizzare, in modo ovviamente schematico, e quindi drammaticamente semplificato, cosa hanno vissuto, percepito e visto gli adolescenti odierni negli undici, dodici anni che hanno preceduto l’arrivo dei compiti evolutivi ineludibili della “seconda nascita” adolescenziale.

Oltre a quanto già detto, è importante ricordare che i genitori mal tollerano la solitudine dei figli, che infatti è stata bandita dell’esperienza di crescita in­fantile a favore di almeno due attività musicali, spor­tive e formative da praticare nei pomeriggi feriali e da qualche laboratorio espressivo e creativo nel fine settimana. Per non parlare dell’importanza dell’ami­cizia, oggi sostenuta in modo spasmodico dai genitori all’epoca delle materne e delle primarie, guardata poi con maggiore sospetto e ritenuta esagerata ai tempi delle secondarie, fatti di interi pomeriggi trascorsi online.

In questa epoca storica, i genitori soffrono enor­memente per il mancato invito del figlio alle feste di compleanno dei quattro o cinque anni di un com­pagno di classe, al punto da organizzare immediata­mente una festa di risocializzazione del proprio, con tanti invitati. Ai bambini è chiarito sin da subito che l’amicizia è fondamentale, talmente importante da chiedere loro di scegliere e comunicare subito chi è colui, o colei, con cui vanno d’accordo. A quel pun­to i genitori inizieranno a frequentarsi tra loro nelle serate e nei fine settimana, a volte organizzeranno anche le vacanze estive in nome del patto di amicizia stretto tra bambine e bambini di cinque o sei anni.

Come è lontana l’epoca in cui da piccolo ti co­stringevano a trascorrere serate in compagnia dei fi­gli degli amici dei tuoi genitori. Oggi sono i figli a scegliere, insieme alle proprie, anche le amicizie di mamma e papà, che si adatteranno volentieri, anche se in realtà ritenevano nettamente più simpatici i ge­nitori di un altro bambino o bambina: “Ma per cari­tà, se lei a sei anni ha deciso così, se vuole frequenta­re questa compagna di classe, è giusto assecondarla, così siamo contenti anche noi”.

Poi, con l’arrivo dell’adolescenza, appariranno esageratamente dipendenti dagli amici, chiamati a partecipare a troppe feste, tra cui i famigerati “diciot­tesimi”, in alcuni casi organizzati con investimenti, look e ricevimenti degni dei matrimoni più sfarzosi.

“Vabbè figlio mio, ma quante feste, non sei mai in casa”, “Anche stasera fuori? Ma non puoi stare un po’ a casa tua con i tuoi genitori?”. Contraddizioni della società odierna, dove si vorrebbe che frequen­tassero tanti amici durante l’infanzia e restassero a casa con mamma e papà in adolescenza, collegandosi un po’ meno anche su internet. Come se fosse stata una scelta dei bambini di sei mesi quella di incontrar­si e dar vita a un’istituzione detta asilo nido: “Anche tu dopo questo primo semestre di vita ti stai annoian­do a stare a casa tutto il giorno con tua madre? Ah bene, allora apriamo un asilo!”.

Si cresce in un contesto dove la popolarità e il suc­cesso vengono prima di tutto, al punto che la società dei like e dei follower nasce non con l’accesso a in­ternet ma con quello nella scuola materna. Solitudine e mancata socializzazione dei figli, l’incubo odierno del bravo genitore, che lavora sin dal giorno dell’in­serimento nell’edificio della nuova microsocietà del figlio per renderlo un animale sociale di successo.

Visualizzazioni e applausi

A partire dal secondo anno di vita, poi, ci penseranno la società massmediatica, il marketing dell’infanzia, i cartoni animati trasmessi ventiquattro ore su venti­quattro nei canali monotematici, la sovraesposizione e la “pornografizzazione” di tutto a costituire model­li di identificazione per le nuove generazioni. La linea di demarcazione tra ciò che è da conside­rarsi esperienza privata e ciò che è pubblico, oggi, in­fatti, è diventata sempre meno visibile, indistinta, al punto che in qualsiasi pratica quotidiana si è portati a superare il limite. La cena al ristorante in coppia, o tra amici, trova senso se qualcuno dei commensali fotografa e pubblica lo “straordinario” piatto di spa­ghetti al pomodoro, così come il politico, per poter avere qualche speranza di elezione o riconferma, deve dedicare una “storia”, sul social in voga in quel momento, a ogni iniziativa a cui partecipa, compresa la comparsata alla sagra dello gnocco fritto o alla ma­nifestazione in onore della polenta taragna.

I più importanti politici italiani che postano imma­gini del prodotto dolciario più in voga del momento, per agganciare l’algoritmo che renderà la loro comu­nicazione “trending topic” in internet e per favorire il processo di empatizzazione da parte del cittadino che a breve sarà chiamato alle urne. Sono davvero lontani i tempi del Presidente Sandro Pertini e del Sindaco di Milano Aldo Aniasi.

Persino la celebrazione della morte, da evento di raccoglimento e riflessione silenziosa, si è trasforma­ta in manifestazione applaudita alla comparsa del fe­retro sulla soglia della chiesa, in un tentativo dispe­rato di rendere l’uscita di scena un evento social, da grande pubblico; un applauso che spettacolarizza e crea rumore per non sentire il dolore e trasformarlo in ostentazione. Politici che ritengono il parlamento il luogo ideale per chiedere, durante il proprio inter­vento in aula, la mano della propria fidanzata, ormai non più chiesta al padre della futura sposa ma ai social network e ai più importanti quotidiani e siti internet che riporteranno la notizia. L’importante è esserci, far parlare di sé in qualsiasi modo, magari il matrimonio non si celebrerà neanche, oppure era già stato organiz­zato da tempo, ma intanto sei in prima pagina. Testate storiche che pubblicheranno, per poter mantenere un numero di lettori che garantisca la sopravvivenza del­la leggendaria istituzione editoriale, le immagini video dell’ennesima rissa della sera prima in un talk show televisivo o del conflitto furibondo tra qualche giudi­ce di un talent frequentato da potenziali nuove star, o da vecchie celebrità in declino che, pur di una nuova comparsata in tv, si sono reinventati ballerini o imita­tori di qualcuno ormai più famoso di loro.

Del resto, ai tempi di internet, anche il “coccodril­lo”, testo redatto con devozione, in occasione della morte di un musicista (attore, uomo dello spettacolo, personaggio noto) dal giornalista che ne aveva seguito con competenza la carriera, conta sempre meno. Chi ha studiato e conosce a fondo la biografia del can­tante appena scomparso passa in secondo piano, pre­varicato dal successo delle reazioni social, riprese da qualsiasi sito d’informazione.

La commemorazione oggi è dovuta, a tutti conces­sa, l’importante è poter dire la propria, indipenden­temente dal rapporto intrattenuto con il noto can­tante appena dipartito: “La tua morte mi ha colpito profondamente, anche se non ti ho mai conosciuto, non ho mai posseduto un tuo album, né mai ascolta­to una tua canzone intera… Ma un giorno, una volta, in radio, per sbaglio, ho sentito una frase di un tuo brano musicale e mi è rimasta impressa… Voglio ri­cordarti così… rip”.

Ci siamo dentro tutti. È la società odierna in cui nessuna persona dotata di senno prova ancora a utilizzare l’antica distinzione tra vita virtuale e vita reale, così come avveniva in passato. Io stesso ho scaricato da poco più di un anno WhatsApp, ceden­do alle insistenze di colleghi che mi accusavano di atteggiamenti snobistici o, addirittura, ideologici, e ho deciso di aprire un sito internet per rendermi vi­sibile, visto che non riesco ancora ad accettare l’idea che convenga proporsi su Facebook, Instagram o Tik Tok, commentando qualsiasi notizia quotidiana mi colpisca o fotografandomi prima di ogni conferenza o convegno a cui partecipo.

Oggi, come sostiene Luciano Floridi, si vive onlife, e neanche gli psicologi e gli psicoterapeuti più conser­vatori possono far finta di niente, dato che non solo gli influencer, gli youtuber, i trapper, e gli e-sporter costruiscono il loro successo reale attraverso quello virtuale, ma anche le crisi di governo avvengono pri­ma via social e al parlamento spetta solo il compito di certificarle. La voce e il corpo si presentificano in ogni momento, si è sempre onlife appunto, alla ricer­ca di popolarità e successo. Ma siamo pronti a farci carico educativamente e affettivamente di cosa ciò possa rappresentare per preadolescenti e adolescenti nati e cresciuti nella società della visibilità e dell’im­magine? Quali ricadute può avere sul funzionamen­to psichico delle nuove generazioni il fatto di essere stati fotografati già prima di venire al mondo, il gior­no della morfologica, e poi in ogni piccola peripezia, a partire dalla recita della scuola materna dove or­mai a nessuno importa più niente dei figli degli altri, ma quello che conta è inquadrare il proprio con lo smartphone o un tablet?

NOTA BIOGRAFICA DELL’AUTORE

Matteo Lancini

Psicologo e psicoterapeuta. Presidente della Fondazione “Minotauro” di Milano. È docente di “Compiti evolutivi e clinica dell’adolescente e del giovane adulto” presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università Milano-Bicocca e di “Psicologia clinica” presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica di Milano. All’interno del Minotauro dirige il Master “Prevenzione e trattamento della dipendenza da internet in adolescenza”, coordina la Sezione Adolescenti del Centro di consultazione e psicoterapia e insegna nella Scuola di formazione in Psicoterapia dell’adolescente e del giovane adulto. Come consulente scientifico ha contribuito alla stesura delle premesse per la realizzazione del Piano Adolescenza (2018-2020) della Regione Emilia Romagna. Attualmente è membro del gruppo di lavoro tematico sulla dispersione scolastica (2021-2023) dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia del Miur. È membro dei seguenti comitati scientifici: Cremit (Centro di ricerca sulla educazione ai media, all’informazione e alla tecnologia) dell’Università Cattolica di Milano, Pearson Academy, Psicologia Contemporanea.