Il contributo della docente e giornalista Rita Frattolillo per la rubrica “Alesia ed i suoi compagni di viaggio”
A cento anni dalla nascita di don Milani, la sua visionaria lezione di una scuola pensata per i figli dei contadini e il suo esempio di irriducibile avversario delle ingiustizie ci pongono scottanti interrogativi in particolare sul tema della “scuola del merito”, in tempi di diseguaglianze crescenti, tassi altissimi di dispersione scolastica e con una popolazione scolastica composta per il 30% da figli di immigrati.
L’educatore di Barbiana, ispiratore della famosa “Lettera a una professoressa” moriva a 44 anni nel 1967 per un linfoma che lo straziava da tempo, e forse non immaginava che quello scritto collettivo, concertato con i suoi ragazzi, avrebbe squassato il mondo dell’educazione nazionale, offrendo una sponda poderosa al Movimento Studentesco che, proprio mentre lui moriva, provava ad organizzare il suo “assalto al cielo” che prese forma a Parigi nel maggio successivo.
Quella lettera ebbe l’effetto di un sasso nello stagno. L’impatto fu fortissimo. Perché dava voce a ragazzi poveri ed emarginati, e denunciava forte e chiaro il sistema scolastico e un metodo didattico che, favorendo l’istruzione delle classi agiate, abbandonava all’ignoranza la maggior parte del Paese. Da qui la posizione di don Milani verso il latino, che aveva definito “lucignolo spento” perché nessuno dei suoi ragazzi vi si era avvicinato. E come avrebbero potuto, sapendo quale fosse il loro bagaglio di sopravvivenza, quali gli obiettivi che si erano posti?
In quegli anni molti degli italiani poco e male informati sull’esperimento di scuola a tempo pieno di don Milani – in cui i ragazzi lavoravano tutti insieme, come in un collettivo, dove chi sapeva di più aiutava gli altri – erano convinti che quel sacerdote così diverso dagli altri fosse di origini proletarie. Niente di più sbagliato.
Lorenzo Milani era nato (27.05.1923) a Firenze da un’agiata famiglia ebrea non praticante colta e cosmopolita. A Milano, dove si era trasferita, la famiglia si trovò isolata a causa dell’ascesa del nazifascismo, sicché corse ai ripari adottando misure sociali più ortodosse, e battezzando, negli anni ’30, i figli. Dopo il liceo Lorenzo, indole ribelle, rifiutò di iscriversi all’università, preferendo seguire i corsi di arte a Brera. Avvicinatosi al cattolicesimo, a quindici anni ricevette la prima comunione, ma la vera conversione avvenne dopo la lettura di un vecchio messale rinvenuto casualmente e dopo l’incontro con don Raffaele Bensi, che in seguito divenne suo direttore spirituale.
Da sacerdote, fu sempre obbediente alla Chiesa e non ne mise mai in discussione i precetti, ma non fu capito dalle gerarchie ecclesiastiche.
Nell’autunno del 1954 fu trasferito a Barbiana, che non era un villaggio, ma un luogo di montagna senza strade, acqua, luce e scuola. La parrocchia era piccola e isolata, con qualche casa sparsa nei boschi e nei campi vicini. Più che di trasferimento, si trattava di esilio, perché il giovane parroco non aveva rispettato le direttive vaticane di far votare Democrazia Cristiana alle elezioni politiche del 1953. In quel posto sperduto del Mugello Don Lorenzo cominciò proprio dalla scuola, raccogliendo i figli dei contadini e dei pastori che erano andati poco o per niente a scuola. Fu una scuola dura, mattina e pomeriggio, compresa la domenica. Niente riposo, niente ricreazione: occorreva appropriarsi degli strumenti per costruirsi una vita migliore rispetto a quella dei genitori. Ai suoi ragazzi diceva, ammonendoli: «Se il padrone conosce 1000 parole e tu ne conosci solo 100, sei destinato a rimanere servo».
L’anelito di rinnovamento di don Lorenzo non escludeva nessun ambito della società, e quando egli pubblicò, nel 1958, “Esperienze pastorali”, in cui proponeva un cambiamento radicale della Chiesa, il suo libro venne ritirato dal commercio per disposizione del Sant’Uffizio. Ma questo non lo fermò, anzi.
Tra le tante battaglie portate avanti – che fecero di lui una figura scomoda e controversa, amata dagli ultimi ma anche da intellettuali come PP Pasolini ed Erich Fromm – si ricorda la lettera aperta indirizzata a un gruppo di cappellani militari per difendere l’obiezione di coscienza. La lettera venne incriminata e don Lorenzo rinviato a giudizio per apologia di reato. Morì quando il processo di appello era ancora in corso.
La sua morte, sopraggiunta il 26.06.1967, accrebbe ancora più l’interesse generale per la“Lettera a una professoressa”, la cui stesura era stata ultimata al suo capezzale con i ragazzi che gli leggevano i brani da inserire.
Ma era stata solo l’ansia di giustizia sociale e la voglia di riscatto a ispirarla?
In verità fu proprio la bocciatura – ritenuta ingiusta – di due ragazzi di Barbiana che avevano affrontato l’esame nella scuola pubblica, a stimolare la lettera indirizzata alla prof. che li aveva respinti.
Dopo la sua morte, don Milani è diventato un punto di riferimento per il cattolicesimo socialmente attivo e per l’impegno civile nell’istruzione dei paria della società.
Nel Molise è stata la docente e scrittrice Elvira Santilli Tirone a prendere spunto dalla “Lettera” che aveva mandato in ebollizione la classe insegnante di cui anche lei era esponente di spicco.
Nel romanzo “A colloquio con Belzebù”, uscito nel 1991, vincitore del Premio nazionale “Scopri l’Autore” la Tirone, attingendo alla sua esperienza professionale in ambito didattico, attraversa in chiave critica e problematica gli anni fondamentali della riforma della scuola dell’obbligo.
L’Autrice capracottese (1923-2013) presta al protagonista del suo romanzo Arturo Rivolta la propria esperienza di docente, inoltrandosi in sentieri da lei praticati quotidianamente.
Arturo Rivolta è il 47enne padre di quattro figli, e ha una moglie, Clara, maestra in una scuola di campagna. Privo di un temperamento forte e deciso, incapace di far valere i propri principi malgrado una sicura preparazione, è schivo e riservato, e non è assistito dal suo diavoletto, Belzebù, che è dispettoso, malevolo e cattivo consigliere. Questo il quadro.
Sono gli anni in cui i ministri Misasi, Sullo e Ruberti, uno dopo l’altro, fanno “piovere” dall’alto sulla Scuola italiana una serie di riforme, in primis l’obbligo della frequenza per tutti fino alla terza media. Qui tocchiamo il cuore del romanzo, perché la Tirone descrive dall’interno il momento incandescente delle riforme – scaturite anche dall’esperimento di don Lorenzo Milani – che divise la classe docente di tutt’Italia, tra fautori e contrari.
L’Autrice dipinge con maestria e onestà intellettuale quella svolta epocale, perché anche lei in quella fase insegnava alla Scuola media, e percepiva il malessere di chi era chiamato a rivedere metodo e sistema, perché in alto qualcuno così aveva deciso, ma senza curarsi di formare e preparare adeguatamente al nuovo corso i docenti, che dovevano improvvisare facendo leva esclusivamente sulla propria abilità di docenti e capacità di adattamento.
Quando giunge nella scuola di Rivolta il libro degli otto ragazzi di Barbiana, Elvira Tirone inscena l’infuocato confronto tra l’energica e autoritaria professoressa Mencarelli (l’esatto contrario di Arturo) e la preside Spinelli, controfigura di Angela Freda (1900-1980), la preside che realmente aveva retto, e con autorevole prestigio, il Liceo classico di Larino.
È l’occasione, per Elvira Tirone, per difendere la dignità e l’importanza formativa del latino, ma è anche l’occasione per prendersela con gli uomini di cultura che non avevano difeso dagli insulti di certi sapientoni il lodevole decoro con cui i proff. si erano sobbarcati il peso delle riforme, continuando, oltretutto, ad accontentarsi di magri stipendi.
È anche l’occasione per sollevare il problema della famiglia in cui la madre lavora fuori casa. La scuola a pieno tempo era praticata allora solo da don Milani, che viveva con i suoi ragazzi a Barbiana, mentre in quella pubblica era ancora un’ipotesi; ma l’interrogativo si poneva, ed era forte: a chi lasciare la cura di figli, marito e vecchi genitori, se le proff. devono lavorare anche il pomeriggio? Elvira Tirone in questo bello, profondo romanzo, si dimostra vera donna di scuola, capace com’è di far immergere i lettori nella vita tra i banchi durante l’anno scolastico.
Rappresenta senza fare sconti l’unicità della classe docente, una categoria sempre pronta a intavolare discussioni, anche speciose e inutili, disunita e confusionaria, specialmente nei momenti decisivi. Contestato con violenza da una scolaresca particolarmente ribelle, intrisa di idee pseudoproletarie, Arturo decide di pre-pensionarsi. Affida alla lettera per la sig.na Mencarelli l’analisi della propria crisi e delle sue cause. Una lettera che è una sorta di testamento spirituale della Tirone. Alla fine del romanzo il prof., terrorizzato dalla prospettiva di giornate vuote da trascorrere in casa – i figli all’Università, la moglie al lavoro – torna sui propri passi, a scuola, perché sa di ritrovare fiducia solo nel contatto restauratore con i suoi alunni. Rientrato a scuola, trova tutto mutato. Gli ex sessantottini si erano inseriti nel sistema affermandosi per via politica, e spesso proprio in base alla solidità di una cultura umanistica acquisita per sé e rigettata per la massa quale strumento di potere borghese.
Oltre vent’anni dopo la riforma dell’obbligo scolastico gli incendiari del ’68 erano diventati da parecchio pompieri, e la conclusione del romanzo di Elvira Tirone è toccante per l’amarezza che l’attraversa, per l’evidente sfiducia nel futuro.
Quando in questi mesi abbiamo sentito invocare il merito come pilastro di una scuola che deve mandare avanti i migliori, quando il termine “merito” è comparso persino nella dicitura del Ministero dell’Istruzione, la mente di molti di noi è andata al priore di Barbiana, che si era inventato una scuola pensata per i figli dei contadini contrapponendola a quella dei “padroni”.
Ci sono voluti cinquant’anni perché un pontefice, Papa Bergoglio, recandosi a Barbiana nel 2017, restituisse valore all’opera complessiva di don Lorenzo.
Ma questa brusca virata sugli obiettivi della Scuola così come indicata dal nuovo Governo pone un serio problema: se cioè la Scuola di oggi, così intesa, è in grado di riflettere sulle proprie manchevolezze e sulla frase di don Milani: «Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali».
Rita Frattolillo

NOTA BIOGRAFICA
*RITA FRATTOLILLO ha affiancato all’impegno di docente negli istituti superiori di Campobasso l’attività di giornalista pubblicista (dal 1988) e quella di ricercatrice nell’ambito dialettologico, in quello artistico e storico-letterario del Molise, svolgendo un’intensa attività di divulgazione culturale. Numerose le pubblicazioni, tra cui: il volume sulla pittrice e musicista Elena Ciamarra di cui ha curato per conto dell’Amministrazione Provinciale di Campobasso il coordinamento e la biografia (Arti Grafiche La Regione, 1996), il dizionario Molisani, milleuno profili e biografie (ed. Enne, 1998, con Barbara Bertolini), il volume Il tempo sospeso. Donne nella storia del Molise (Filopoli, 2007, con B. Bertolini), il saggio Donne nel Risorgimento Molisano (2010, n.34, “Rivista storica del Sannio”), Lingua e dialetto a Montagano nel Sannio tra passato e presente (ed. Enne, 2003, con Michela D’Alessio, prefazione di Ugo Vignuzzi), Il dialetto di Campobasso (saggio, nel II vol. dell’opera collettanea in 3vv. Campobasso capoluogo del Molise, ed. Palladino, 2008, a cura di R. Lalli, N. Lombardi, G. Palmieri), Alle radici del dialetto di Riccia. Lingua e dialetto a confronto (saggio, in Lingua e dialetto a Riccia e nell’area del Fortore, ed. Trediciarchi, 2013). Nel 2017 ha dato alle stampe (ed. Gedi) il romanzo Le ali del ritorno. Nel 2020 ha pubblicato, con Iannone di Isernia, “L’infanzia migrante tra realtà e rappresentazione letteraria”.